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Perchè non ci piace Pillon

Il 9 novembre il senatore Simone Pillon verrà a Napoli a presentare il disegno di legge sull’affido condiviso dei figli, e anche noi non mancheremo l’occasione per far sentire la nostra voce totalmente contraria, insieme alla rete Non Una Di Meno. Per una strana coincidenza, poi, Pillon arriva a Napoli proprio il giorno prima della data nazionale chiamata dalla rete dei centri antiviolenza e supportata dalla stessa rete Non Una di Meno che punta a costruire una grande mobilitazione per impedire che questo disegno venga effettivamente trasformato in legge.

Nelle ultime settimane si è parlato molto di Pillon, ma sappiamo anche che vige ancora molta confusione su quelli che sono i cambiamenti che questa legge apporterebbe se venisse votata. Oltre a fare chiarezza e a esplicitare quelli che sono i punti chiave dello stesso disegno, sentiamo l’urgenza di inserirlo nella giusta cornice di analisi politica e non considerarlo come  una misura isolata da intendere esclusivamente nella dimensione del diritto di famiglia perché ci sembra limitante. Ma procediamo con calma.

Che cosa prevede il disegno di legge Pillon?

Innanzitutto viene sancito, all’articolo 7, l’obbligo di mediazione familiare, a pagamento, per le coppie che vogliono divorziare con figli minorenni a carico e che non riescano a  trovare un accordo: la figura del mediatore familiare (stessa professione del senatore Pillon) viene appositamente regolamentata e riconosciuta attraverso la creazione di un Albo. Si assiste così  alla privatizzazione della gestione del conflitto di coppia che crea uno spazio in cui il soggetto più debole resta esposto al potere di condizionamento del più forte. Vogliamo evidenziare quanto una simile misura possa pesare nei casi di donne vittime di violenza di genere che si vedrebbero costrette  a decidere del futuro dei propri figli insieme al marito violento, per non parlare di quanto il carico economico dell’obbligatorietà della mediazione possa di fatto disincentivare molte donne che magari sono casalinghe o hanno un lavoro part-time o precario (rimandiamo agli ultimi dati del Gender Gap Pay Report che testimoniano questa realtà), a optare per il divorzio. Meglio restare sposate, magari con un marito violento, che rivendicare una libertà troppo cara per molte, troppe donne.

Viene previsto il mantenimento diretto: in base al piano familiare, infatti, ogni coniuge parteciperà direttamente al mantenimento del figlio. Oltre a domandarci come si possano definire concretamente in pochi mesi le esigenze anche economiche di un minore che resta comunque una persona che cresce con tutto il suo portato di bisogni, esigenze e aspirazioni, vorremmo evidenziare anche in questo caso la posizione scomoda in cui si troverebbero molte donne che magari hanno sacrificato lavoro e carriera per la famiglia. Si procede nella stessa ottica anche per quanto riguarda la casa familiare: l’interesse del minore mantenere il proprio contesto di crescita senza dover cambiare casa viene sottoposto alla logica di proprietà e il coniuge economicamente più debole (in genere le donne, per quanto abbiamo detto anche sopra), si vede costretto al pagamento di un indennizzo  a prezzo di mercato al genitore proprietario.

Viene riconosciuta la sindrome da alienazione parentale, il cui fondamento medico è stato smentito da tempo dalla comunità scientifica. In cosa consiste? Partendo dal presupposto che il minore sarà obbligato a passare 12 giorni al mese con entrambi i genitori, qualora lo stesso dovesse opporsi a trascorrere del tempo con uno dei due genitori, allora l’altro verrebbe riconosciuto responsabile dell’avere volontariamente provato ad allontanare il figlio dall’altro coniuge e vedersi limitata, o addirittura perdere, la potestà genitoriale. Oltre a sottolineare l’assurdità del considerare un bambino come un pacco da dividere, come un oggetto che non è in grado di manifestare dei suoi sentimenti, delle sue emozioni e una sua volontà, anche in questo caso basta pensare ai casi di famiglie con genitori violenti per valutare le conseguenze devastanti di un simile provvedimento. Inoltre, nei casi in cui sia la donna stessa a sollevare il problema di un marito violento, può venire accusata di “grave pregiudizio ai diritti relazionali del figlio minore e degli altri familiari”, scoraggiandola ancora di più a uscire da situazioni di violenza domestica. Ma a quanto pare per questo governo la famiglia come istituzione è un labirinto senza uscita, un meccanismo che ti sovrasta e ti determina anche nei casi in cui ha perso di fatto ogni legittimazione a esistere.

La logica alla base di questo disegno di legge è quella di raggiungere un principio di bigenitorialità che dovrebbe garantire l’assunzione di responsabilità condivisa da parte di entrambi i genitori. Il problema è che, nel concreto, il quadro che risulta da questo disegno di legge è ben diverso: la bigenitorialità viene intesa come un’astrazione da imporre a tutti i costi, senza tenere conto delle condizioni reali dei due coniugi. Pensare di apportare delle riforme al diritto di famiglia che non tengano conto della situazione concreta di diversità che caratterizza la vita di padri e madri in Italia non fa che rafforzare la concezione della famiglia stessa come un’imposizione violenta. Tale realtà è quella che emerge da innumerevoli dati e che tutte le donne vivono ogni giorno: è la realtà del lavoro precario e part-time, della disparità di salari e opportunità lavorative, del lavoro domestico e di cura svolto ancora gratuitamente da moltissime donne (quelle che non si possono permettere di delegarlo ad altre donne, magari straniere e sicuramente più povere).  E’ la realtà vissuta da tante, tantissime donne ogni giorno e fatta di violenze fisiche e psicologiche perpetrate quotidianamente dai loro mariti e compagni e che davanti a un cambiamento come quello previsto da questo disegno di legge si vedrebbero sicuramente scoraggiate nel decidere di raggiungere la propria libertà e indipendenza più di quanto già non accada.

Quali donne vengono attaccate?

Se è vero che questo disegno attacca potenzialmente tutte le donne, chi ne sconterà in maniera più pesante le conseguenze saranno le donne più povere e precarie, quelle che non hanno un lavoro in grado di garantire quell’indipendenza economica necessaria a dire basta davanti al fallimento di una relazione o, ancora peggio, ai casi di relazioni violente. Per fare in modo che la bigenitorialità cessi di essere un principio astratto occorre garantire alle donne la possibilità di lavorare degnamente e per salari pari a quelli dei loro colleghi uomini, significa finanziare i centri anti-violenza e i consultori familiari, significa concepire la cura e il lavoro riproduttivo come responsabilità sociali da affrontare collettivamente, evitando che ricadano come peso esclusivo sulle spalle della sola componente femminile. Quello a cui assistiamo è invece l’esaltazione del matrimonio indissolubile, una concreta forma di negazione del divorzio per le famiglie meno agiate. Il fatto che il tutto venga spacciato attraverso la retorica del preservare l’interesse del minore risulta ancora più intollerabile se si considera che, nel concreto, i minori vengono visti da Pillon come degli oggetti da spartire: non si considera la loro volontà, non si ascolta il loro malessere, li si vede come proprietà da spartire, mentre si rafforza ulteriormente il processo di mercificazione della cura, che considera l’affetto come una merce definibile economicamente e riducibile a un assegno di mantenimento.

Crediamo poi che sia fondamentale tenere insieme anche un altro elemento centrale nell’attacco che viene portato avanti: la messa in discussione del diritto all’aborto che passa attraverso l’adozione delle mozioni pro-life, mentre poco e niente viene fatto per arginare la piaga dell’obiezione di coscienza. Anche in questo caso non si può prescindere da una prospettiva materialista di analisi, dal momento che chi ha i soldi per permetterselo potrà continuare a ricorrere al privato, a meno fino a quando i tempi non saranno maturi per eliminare l’aborto in sé (e non è fantascienza, ma sono le posizioni espresse più volte dal ministro Fontana e dallo stesso Pillon).  Ma non è finita qui.

Quanto si può speculare sul corpo delle donne?

Siamo convinti che, per restituire pienamente la logica alla base del disegno di legge Pillon e per cogliere la complessità dell’attacco portato avanti da questo governo non si possa prescindere dal prendere in considerazione simultaneamente le modifiche apportate dal decreto sicurezza e la narrazione razzista e xenofoba sdoganata quotidianamente da questo governo. Se nell’Italia del 2018 ci si può permettere di attaccare diritti fondamentali come aborto e divorzio, è perché viviamo in una società letteralmente terrorizzata dall’incubo dell’invasione dei migranti, da una narrazione tossica che non trova alcuna base di verità nei dati statistici (Come evidenziato dall’Istituto Cattaneo, “gli intervistati italiani sono quelli che mostrano un maggior distacco (in punti percentuali) tra la percentuale di immigrati non-UE realmente presenti in Italia (7%) e quella stimata, o percepita, pari al 25%.”). E’ sulla base di questa narrazione che si legittima l’ideale della donna votata alla procreazione, identificata nella funzione sociale di riproduttrice come unica arma di resistenza della “nostra” cultura, come madre e moglie da proteggere dalla minaccia esterna (e quindi che ti divorzi a fare? Hai bisogno di essere difesa dal tuo uomo!)

A ciò si aggiunge poi il grande classico mediatico degli immigrati che ci rubano il lavoro e che arrivano in Italia per stuprare e ammazzare le donne: è a partire da qui che si può sdoganare pubblicamente la necessità di preservare la purezza della nostra razza facendo in modo che sempre più donne italiane facciano figli, addirittura si promettono terreni in cambio! Il problema è che così si supera il piano della scelta individuale delle singole donne (che non vengono messe in condizione di poter scegliere liberamente attraverso una seria politica di servizi sociali e di miglioramento delle condizioni lavorative), per arrivare a quello dell’imposizione. Fai figli donna, è la patria che te lo chiede!

Se consideriamo questo discorso insieme al processo di criminalizzazione delle migrazioni iniziato già da anni e ulteriormente rafforzato da questo governo, ma soprattutto insieme al famoso dibattito sullo ius soli di qualche mese fa, appare chiaro che il problema non è fare in modo che l’Italia non sia un paese di vecchi, ma fare in modo che sia un paese di bianchi, altrimenti la cosa più logica da fare per “ringiovanire” la nostra società sarebbe riconoscere la cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia.  Ancora volta il corpo delle donne viene usato strumentalmente per affermare altre esigenze e necessità, come quella del controllo sociale sicuramente, ma anche quella molto più concreta e materiale della divisione di una società attraverso la trasformazione di differenze in disuguaglianze che permettono di ordinare gerarchicamente questi diversi gruppi sociali anche nel mercato del lavoro. Una donna vale meno di un uomo tanto a casa quanto a lavoro, così come un nero vale meno di un bianco e quindi può essere sfruttato tranquillamente nelle nostre campagne per 2 o 3 euro all’ora.

Quindi?

Da quanto detto in precedenza emerge chiaramente la necessità di strutturare una risposta all’altezza dell’attacco subito. Sicuramente resta fondamentale fare chiarezza su quanto previsto dal disegno di legge Pillon in modo che quante più persone possibile si rendano contro della gravità dello stesso, così come riteniamo che il fronte della lotta antisessista sia prioritario in questo momento storico e politico: è necessario lottare per garantire il mantenimento e l’effettiva efficacia di diritti che spesso diamo per scontati. Eppure crediamo anche che sia fondamentale intersecare le lotte e fare in modo che si rafforzino l’una con l’altra: sicuramente quelle portate avanti dai movimenti femministi e dai movimenti antirazzisti hanno necessità di fare fronte comune.

Siamo convinti, poi, che non si tratta solo di organizzare la resistenza a questo governo: partendo dal presupposto che negli ultimi anni gli attacchi all’autodeterminazione delle donne e alla dignità di vita della componente migrante sono venuti da più fronti e da più forze politiche, riteniamo che sia fondamentale capire l’obiettivo comune di una qualunque lotta che possiamo definire identitaria: fare in modo che la propria identità specifica cessi di essere motivo di discriminazione e causa di sfruttamento economico per divenire occasione di arricchimento comune, diversità innegabile sì, ma su un piano di uguaglianza. La logica da combattere è la stessa: io ti naturalizzo come inferiore, come sottomesso, ti discrimino e non ti riconosco il diritto a scegliere per te stesso/ te stessa e, sulla base di questo processo, ti metto in posizioni di lavoro secondarie e subalterne anch’esse, le più precarie, le meno retribuite, le più sfruttabili.

Per tutti questi motivi siamo stati molto contenti di aver partecipato all’assemblea nazionale di Non Una Di Meno a ottobre: ne è uscita una prospettiva di strategia politica che tiene conto della complessità del presente in cui viviamo. Siamo convinti che supportare attivamente questo movimento sia priorità politica per tutte e tutti e perciò ci impegneremo nel sostenere le mobilitazioni del 9 e del 10 novembre a Napoli e del 24 novembre a Roma. Nessun movimento politico che punti a una trasformazione concreta  e reale dell’esistente può prescindere da una prospettiva antisessista e antirazzista nell’elaborazione delle sue strategie politiche, perché è proprio su queste basi che veniamo divisi da chi ci vuole sempre più frammentati e sfruttabili. E’ per questo che il fonte di lotta e resistenza oggi deve essere comune: ci vogliono divisi, ci avranno sempre più uniti e determinati!

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