Il sottotitolo di Left è “Sinistra senza inganni”. Mai scelta è stata più azzeccata. Negli ultimi trent’anni, infatti, l’inganno sembra essere diventato il marchio distintivo della Sinistra. Mentre la Destra – berlusconiana, leghista, fascista – faceva quello che doveva fare, con tutti i danni che sappiamo, la sinistra si specializzava nell’arte di dire una cosa e di farne un’altra.
su Left
A parole: difesa dei lavoratori. Nei fatti: Pacchetto Treu, introduzione della precarietà, Jobs Act, abolizione dell’articolo 18, privatizzazioni, svendita del patrimonio industriale.
A parole: redistribuzione della ricchezza. Nei fatti: regali alle imprese, sgravi fiscali ai ricchi, finanziamenti pubblici a soggetti privati, tagli ai servizi, a scuola e sanità.
A parole: lotta alle mafie e questione morale. Nei fatti: corruzione, perfetta integrazione con clan e potentati locali.
A parole: accoglienza e lotta alle discriminazioni. Nei fatti: Decreto Minniti, gestione razzista delle politiche migratorie.
A parole: pace e cooperazione. Nei fatti: bombe sui Balcani, finanziamenti per tutte le missioni italiane all’estero, spese militari folli.
E potremmo continuare a lungo…
Ma l’inganno ha raggiunto l’apice in questi ultimi anni. Non solo a causa di Renzi, un democristiano che sale al governo grazie all’appoggio del settore finanziario, di Confindustria e di Berlusconi, e tenta di far passare come cosa di Sinistra la riscrittura della Costituzione. Ma soprattutto a causa di chi fino a poco tempo fa era al suo fianco, votando di tutto e di più, e poi, fatto fuori nella lotta interna per il potere, si è reinventato “radicale” per non perdere la poltrona…
I “sinistri” che si presenteranno alle prossime elezioni – D’Alema, Bersani, Grasso, Speranza, Civati, Fassina, più una serie di impresentabili (do you remember Bassolino o De Gaetano?) –, non sono altro che un PD 2. Generali senza esercito, sempre più tristi e visibilmente nervosi, la cui brillante strategia politica consiste nel rosicchiare qualche percentuale al PD, capitalizzando il voto di qualche rete clientelare e di qualche tradizionale apparato sindacale o associativo. Un progetto di grande respiro ideale, come si vede, tenuto su dall’opportunismo e dalla voglia, il giorno dopo le elezioni, di interloquire con Renzi per tornare in auge in un futuro governo (sempre che Renzi non abbia già interloquito con Berlusconi). L’ennesimo inganno.
A noi, che non facciamo politica di mestiere, che viviamo per le strade, che campiamo con 600 euro al mese, pare evidente che gran parte della popolazione italiana è stanca degli inganni. Lo ha detto con il voto ai 5 Stelle, con il referendum del 4 dicembre, con l’astensione. Basta inganni. Basta politicanti che stanno lì a raccontare storie per difendere una poltrona o qualche cordata di interessi. Rottura, discontinuità, differenza anche nei modi, nell’umanità, nelle biografie. Non è che le persone siano stanche della Sinistra o contrarie ai valori di giustizia sociale, libertà, solidarietà: sono stanche di questa Sinistra, di quello che oggi si chiama Sinistra. Dei suoi inganni (lo abbiamo già detto? Ripetiamolo!).
Forse, se si vuole davvero rifare la Sinistra – che poi vuol dire rifare il paese – bisogna partire da qui. Da questo scollamento fra parole e fatti, da questo abisso fra realtà e media, da questa divaricazione fra classi popolari e ceto politico che non le rappresenta più. Se si vuole davvero non rifare la “Sinistra”, ma fare “cose di Sinistra” che servono a migliorare la vita collettiva, bisogna fare tutto al contrario: non muovendo dall’alto, da chi è già incluso, dai nomi illustri, dal salvatore della patria, per restare sempre negli stessi circolini. Ma partendo dal basso, dagli esclusi, dalle periferie d’Italia, dai giovani e dalle donne, dai lavoratori sfruttati e senza diritti, per riconoscersi fra simili, per allargare la partecipazione, per mettere in rete le esperienze positive che pure ci sono, per farle apparire agli occhi di tutti quelli che sono rassegnati e motivarli, per far pesare questo basso sull’alto.
Si dirà: eh bello in teoria, ma nella pratica… Appunto. Fare tutto al contrario vuol dire proprio cambiare approccio, partire dalla pratica, da chi sui territori ci lavora ed è riconosciuto, andare a scovare ogni persona che resiste e non lasciarla isolata, non attenersi a quello che è già selezionato dalle tv e dai giornali, che tanto selezionano ciò che fa comodo, mettersi in prima fila a dare l’esempio, rendere protagonisti non se stessi ma gli altri.
Certo il problema è grave: non abbiamo davanti la sfida di far guadagnare uno o due punti percentuali a qualcosa che già c’è, abbiamo il problema di far nascere il nuovo dentro una crisi profondissima, non solo economica, ma sociale, culturale, ecologica. Non è un problema che possa risolversi nell’arco di pochi mesi, o con un’elezione.
Non è un problema che si risolverebbe nemmeno mettendo un parlamentare “buono”, e nemmeno dieci o cento. Chi ha saputo farlo, chi ha saputo far tornare, in Spagna, in Francia, in Grecia, in Portogallo, la Sinistra al centro della scena, ha dovuto comunque fare i conti con tensioni profonde, con rigidità fortissime del modo di produzione economico capitalista e degli apparati di Stato.
Però almeno lì hanno saputo iniziare, quegli inizi hanno parlato ad altri, hanno prodotto avanzamenti. Noi in Italia, dopo dieci anni di crisi, non abbiamo mai iniziato per davvero. Abbiamo pagato fino in fondo l’eredità delle generazioni precedenti, quella coazione a ripetere sommatorie di ceto politico, o antagonismi sterili, che non riescono ad andare oltre la singola giornata, il singolo gruppetto, a collegarsi in un fronte più largo.
Noi, come tantissimi, a queste elezioni ci saremmo astenuti. Non avremmo saputo cosa scegliere fra destra, 5 Stelle spostati sempre più a destra, e PD 1 – PD 2. Poi ci siamo detti: ma perché? Perché non possiamo sognare qualcosa di diverso? Perché dobbiamo accettare di stare a guardare nei prossimi quattro mesi chi dirà le cose più di destra? Perché dobbiamo essere complici di questa barbarie? Perché dobbiamo vedere che anche nei territori e nelle persone con cui facciamo attività sociale penetrerà il risentimento, la paura, l’ansia da competizione? Perché non possiamo lanciare un messaggio diverso, umano, arrabbiato ma anche positivo, e vedere se qualcuno lo raccoglie? Perché, visto che nessuno ci rappresenta, non cominciamo a rappresentarci noi?
Da qui il video del 14 novembre (visto da centinaia di migliaia di persone) in cui proponevamo di costruire una lista popolare per le prossime elezioni, da qui l’assemblea quattro giorni dopo a Roma al Teatro Italia che ha raccolto 800 persone, da qui le quasi 50 assemblee convocate su tutto il territorio nazionale, a cui stanno già partecipando in migliaia… Tutte cose di cui si parla troppo poco, perché quando si rompono dei paradigmi, quando si rovesciano i soliti modi di fare, l’occhio ci mette un po’ ad abituarsi.
E siamo solo l’inizio. Se i problemi sono quelli detti sopra, il discorso non si apre e non si chiude con le elezioni. Le elezioni diventano un pretesto per conoscersi e farsi conoscere, per raccogliere le forze che il giorno dopo le elezioni torneranno di nuovo sui territori a lottare e costruire, ma finalmente con una casa più grande della propria associazione, centro sociale o sede di partito. Si faccia lo zero virgola o si faccia il 5%.
Perché, fare tutto al contrario, oggi vuol dire lavorare senza sosta per dare potere ai territori, alle singole persone, alle classi popolari, metterle in condizione di decidere sui grandi temi dell’economia, della società e della vita, diventare con loro protagonisti del nostro destino. D’altronde che cos’è la democrazia se non, alla lettera, il “potere al popolo”?