Da decenni ormai è chiaro che i modelli di sviluppo proposti dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dal Washington Consensus – debito, austerità, aggiustamento strutturale – semplicemente non funzionano. La lunga storia di avversità vissuta dai Paesi ex coloniali rimane intatta. Uno sguardo ai numeri del Maddison Project Database 2023 mostra che il prodotto interno lordo (PIL) globale in termini di parità di potere d’acquisto (PPP) è aumentato del 689,9% tra il 1980 e il 2022 (da 18.800 miliardi di dollari a 148.500 miliardi di dollari). Tuttavia, nello stesso periodo, i tassi di povertà globale non sono diminuiti in misura proporzionale, il che indica che i benefici della crescita economica globale non sono stati distribuiti in modo razionale. L’unica eccezione a questa tendenza è la Cina. L’ultimo rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD), intitolato A World of Debt, ci mostra che il debito pubblico globale ha raggiunto il “livello record” di 97.000 miliardi di dollari (2023) e che dal 2010 il debito pubblico nei Paesi in via di sviluppo “è cresciuto due volte più velocemente di quello dei Paesi sviluppati”. Non sorprende che per decenni istituzioni come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale abbiano detto ai Paesi del Sud globale che l’unico modo per uscire dal debito è indebitarsi, cioè indebitarsi di più. Nel 1998, il Wall Street Journal ha scritto senza mezzi termini che il FMI “non ha combattuto gli incendi finanziari, ma ha gettato benzina sul fuoco”.
Eppure, nonostante l’opposizione dei leader del Terzo Mondo come Nyerere, le “ingerenze” del FMI hanno continuato. Nyerere concluse le sue osservazioni alzando le mani: “Credo che sopporteranno ulteriori sacrifici e oneri che le condizioni attuali ci impongono, purché abbiano la certezza che stiamo facendo del nostro meglio per condividere equamente gli oneri e continuiamo a perseguire le nostre politiche”. Ma quali erano le “nostre politiche”? Questo non fu né abbozzato alla conferenza né chiaramente articolato nei cinque anni rimanenti del mandato presidenziale di Nyerere. Nel 1986, l’anno successivo a quello in cui Nyerere lasciò l’incarico, il nuovo governo della Tanzania si rivolse al FMI e adottò un cosiddetto programma di ripresa economica, che prevedeva tagli alla spesa pubblica e la liberalizzazione dei controlli sui cambi. Non avendo alternative in vista, la Tanzania dovette arrendersi al FMI e abbandonare le politiche di sviluppo cooperativo dell’Ujamaa attuate da Nyerere.
Nel suo ultimo discorso da presidente degli Stati Uniti, Joe Biden ha detto: “È in corso una feroce competizione – il futuro dell’economia globale, la tecnologia, i valori umani e molto altro”. Questa “competizione mondiale”, ha detto, è tra gli Stati Uniti e i suoi alleati da una parte e “Iran, Russia, Cina, Corea del Nord” dall’altra, e gli Stati Uniti la stanno “vincendo”. C’è qualcosa di infantile in questo discorso. Nessun altro Paese ha parlato di “competizione”. Quando un giornalista dell’Agence France-Presse ha chiesto al portavoce del Ministero degli Esteri cinese Guo Jiakun di commentare queste affermazioni, egli ha risposto con calma: “Negli ultimi quattro anni, le relazioni tra Cina e Stati Uniti hanno attraversato alti e bassi, ma nel complesso sono rimaste stabili”. Non c’è stata alcuna belligeranza. Le parole chiave del resto del discorso sono state “consultazione”, “dialogo” e “cooperazione”. Ma Biden ha ragione su un punto: l’emergere della Cina e di altri Paesi asiatici come fonte di domanda di beni e di finanziamenti per l’industrializzazione del Sud globale ha spostato il rapporto di forza a favore dei Paesi in via di sviluppo. Ora non devono più fare affidamento al FMI. Il centro di gravità del commercio mondiale e della tecnologia si sta spostando.
Nel nostro ultimo dossier, Towards a New Development Theory for the Global South (prodotto in collaborazione con Global South Insights), sosteniamo che esiste un’altissima correlazione tra la quota della formazione netta di capitale fisso nel PIL e la crescita economica. In parole povere, ciò che è fondamentalmente necessario per far crescere un’economia è l’investimento in nuove attività fisse (siano esse edifici, infrastrutture o macchinari industriali). Inoltre, si evidenzia una correlazione statisticamente significativa tra il PIL pro capite e l’aspettativa di vita. Questi risultati chiariscono che l’ingresso degli investimenti diretti esteri e dei flussi finanziari speculativi da soli non migliorano gli indicatori sociali. La qualità dei finanziamenti è fondamentale per l’agenda dello sviluppo, al centro della quale si trova il processo di industrializzazione. Nessun Paese si è sviluppato senza un’industria meccanica moderna e, per quanto ne sappiamo ai giorni nostri, non è possibile che un Paese si sviluppi senza costruire la propria capacità industriale. Dobbiamo investire per costruire, costruire per crescere e crescere per migliorare la vita delle persone.
Il rivoluzionario africano Amílcar Cabral ci ha insegnato che l’obiettivo della liberazione nazionale è “la liberazione del processo di sviluppo delle forze produttive nazionali”. Pertanto, la formulazione di una nuova teoria dello sviluppo per il Sud globale è anche un ritorno alla fonte delle nostre lotte per la liberazione dall’imperialismo e dal neocolonialismo. Con essa, tracceremo la strada per le aspirazioni prometeiche del Sud globale.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della quarta newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.