Il 24 e 25 giugno, i membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) sfileranno per le strade dell’Aia in occasione del loro vertice annuale, il primo dopo il ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti e il primo sotto la guida del nuovo segretario generale della NATO Mark Rutte. Il 13 marzo, Rutte ha fatto visita a Trump nello Studio Ovale, dove ha lodato il presidente degli Stati Uniti su diversi fronti, tra cui la guerra in Ucraina. Rutte ha concluso l’incontro dicendo a Trump che non vedeva l’ora di ospitarlo all’Aia, la sua “città natale”, e che era ansioso di “lavorare insieme per garantire che [il vertice NATO] sia un successo, un vero successo che proietti il potere americano sulla scena mondiale”.
La NATO conta trentadue membri a pieno titolo, trenta europei e due nordamericani. Gli Stati Uniti sono solo uno di questi, ma, come ha chiarito Rutte nella sua dichiarazione, sono quelli che definiscono la NATO e sono solo loro a veicolare la proiezione del potere statunitense. Non dovrebbero esserci dubbi al riguardo. È proprio per questo motivo che l’idea che gli Stati Uniti lascino la NATO – come ha minacciato di fare Trump se gli europei non avessero aumentato le loro spese militari – è irrilevante. La NATO è gli Stati Uniti.
- È stata la NATO a smembrare la Jugoslavia nel 1999.
- È stata la NATO a distruggere lo Stato libico nel 2011.
È errato considerare la NATO come un attore autonomo. La NATO, come ha affermato in modo così eloquente Rutte, è uno strumento per “proiettare il potere americano sulla scena mondiale”. Dalla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno utilizzato la NATO per incorporare l’Europa orientale in un insieme di Stati malleabili e subordinati ai propri interessi. Quando l’Unione Europea si è espansa verso est e ha cercato di costruire istituzioni europee autonome, la NATO è intervenuta per garantire che gli Stati Uniti fossero il motore di qualsiasi espansione europea. Si può perdonare chi ha dimenticato l’avvertimento che non è venuto dall’attuale presidente russo Vladimir Putin, ma dal suo predecessore decisamente filo-statunitense Boris Eltsin, che durante i bombardamenti della NATO sui serbi bosniaci nel 1995 avvertì: “Questo è il primo segno di ciò che potrebbe accadere quando la NATO arriverà alle frontiere della Federazione Russa. … Il gioco della guerra potrebbe scoppiare in tutta Europa”. Nel 1990, l’Unione Sovietica accettò con riluttanza la riunificazione della Germania e la sua adesione alla NATO con la garanzia che l’alleanza non si sarebbe espansa verso est (gli Stati Uniti approfittarono anche di questa mossa per “tenere a bada i tedeschi” ancorandoli alle strutture della NATO). Ma non vi era alcun accordo sul fatto che gli Stati Uniti potessero utilizzare la NATO come strumento per proiettare il proprio potere fino ai confini della Russia. Né vi era alcun mandato che consentisse alla NATO di essere utilizzata in teatri lontani come il Mar Cinese Meridionale per affrontare la Repubblica Popolare Cinese con il pretesto della libertà di navigazione e della stabilità regionale. La NATO, contro l’interesse dei suoi Stati membri europei, è stata coinvolta in scontri con la Russia e la Cina che riguardano esclusivamente il desiderio degli Stati Uniti di mettere un freno ai loro “rivali quasi alla pari”. Questi scontri non hanno nulla a che vedere con la sicurezza europea: né la Russia né la Cina hanno minacciato l’Europa, con la Russia che ha ripetutamente ribadito che la sua guerra in Ucraina è legata esclusivamente alle minacce ai suoi confini e la Cina che ha sottolineato di essere una potenza difensiva senza intenzioni aggressive nei confronti dell’Europa.
Dalla fondazione della NATO nel 1949 – e anche durante tutta la Guerra Fredda – non esisteva un parametro di riferimento preciso per la spesa militare degli Stati membri (come la percentuale del PIL). L’Accordo di Lisbona del 1952 sui livelli delle forze della NATO, che fissava gli obiettivi per il numero delle forze convenzionali e di riserva, non poté essere rispettato a causa delle privazioni dell’Europa del dopoguerra. Negli anni ’70, i membri della NATO dovevano compilare un questionario sulla pianificazione della difesa per valutare gli sforzi nazionali in materia di spesa militare, ma non era possibile fissare alcun obiettivo. Durante la presidenza di Ronald Reagan (1981-1989), quando gli Stati Uniti spendevano circa il 6% del PIL per la difesa, furono nuovamente sollevate domande sugli obiettivi relativi al livello delle forze armate e alla spesa per la difesa e furono avanzate richieste agli Stati membri europei per aumentare la loro quota fino al 4% del PIL. All’inizio degli anni ‘90, con il crollo dell’Unione Sovietica, Washington temeva che gli Stati della NATO potessero tagliare i loro bilanci militari. Al vertice NATO di Praga del 2002, i leader dell’alleanza hanno adottato l’Impegno di Praga, che ribadiva la necessità di modernizzare le forze armate nel contesto della guerra al terrorismo, ma non è stato fissato alcun obiettivo formale di spesa.
Diversi istituti e piattaforme di movimento europei hanno già iniziato a pubblicare documenti in vista del prossimo vertice NATO. Uno di questi è il rapporto annuale degli Istituti tedeschi per la ricerca sulla pace e i conflitti (Bonn International Centre for Conflict Studies, Institut für Friedensforschung und Sicherheitspolitik, Institut für Entwicklung und Frieden e Leibniz Institut für Friedens-und Konfliktforschung), che sostiene che l’Europa deve prepararsi a un’era post-USA nella NATO aumentando la propria spesa militare e orientandosi verso forme di diplomazia non letali, come il controllo degli armamenti e le misure di costruzione della pace. Questo è un approccio alla crisi della NATO, ma presenta due difetti fondamentali: in primo luogo, fraintende il ruolo dell’Europa nella NATO trattandola come un partner alla pari, quando in realtà la NATO è uno strumento di subordinazione dell’Europa agli obiettivi strategici degli Stati Uniti; in secondo luogo, anche se gli Stati membri europei volessero aumentare la spesa militare al 5% del PIL, semplicemente non avrebbero la capacità di farlo.
1. Dando priorità alla diplomazia, alla cooperazione globale e alla prevenzione dei conflitti.
2. Investire nella sanità, nell’istruzione, nella resilienza climatica, nell’assistenza sociale e nella creazione di posti di lavoro ben retribuiti, sicuri, sindacalizzati e socialmente utili.
3. Ridurre in modo significativo le spese militari.
4. Sospendere immediatamente le esportazioni di armi verso i Paesi coinvolti in conflitti attivi o violazioni dei diritti umani (tra cui Israele e gli Stati del Golfo).
5. Preparare e attuare una transizione equa per i lavoratori e le comunità che dipendono dalla difesa.
Si tratta di obiettivi ragionevoli e realizzabili in un mondo in cui la maggior parte delle persone desidera la pace e il progresso, non la guerra e lo spreco.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della ventiquattresima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.