Sono una delle tantissime professioniste e professionisti interessati dal decreto attuativo della legge n. 3 del 2018, Legge Lorenzin, che riordina le professioni sanitarie.
Cosa prevede la legge Lorenzin?
Con questa legge vengono istituiti i nuovi Ordini professionali dei tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione. Entro il 31 dicembre 2018 tutti i tecnici dovranno iscriversi al proprio Ordine professionale di riferimento per mantenere il titolo e l’idoneità al lavoro. Stiamo parlando di centinaia di migliaia di lavoratori: oltre al settore privato, tutto il Comparto Pubblico delle professioni sanitarie tecniche e riabilitative (Tecnico sanitario di laboratorio biomedico; Tecnico Tecnico ortopedico; Dietista; Tecnico di neurofisiopatologia; Tecnico fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare; Igienista dentale; Fisioterapista; Logopedista; Podologo; Ortottista e assistente di oftalmologia; Terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva; Tecnico della riabilitazione psichiatrica; Terapista occupazionale; Educatore professionale; Tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro) di tutto il territorio italiano. A primo impatto far parte di un Ordine può sembrare qualcosa di positivo: esso infatti individua quelle che sono le aree di intervento e le mansioni specifiche di una determinata professione tutelando iscritti e consumatori da eventuali abusi. Tuttavia non è proprio così, vediamo perché.
Far parte di un ordine è costoso: forse non tutti lo sanno, ma con la legge 3 del 2018 lo Stato obbliga le Aziende a richiedere ai lavoratori, anche dopo decenni di servizio, il pagamento di una tassa per continuare a svolgere il proprio lavoro. Si chiede cioè a un lavoratore dipendente di entrare in un regime che attualmente riguarda solo le professioni “indipendenti” (come medici, avvocati, notai, ingegneri, psicologi).
Il rischio è quello di accelerare la distruzione della sanità pubblica: far parte di una professione indipendente spingerebbe inoltre molti degli attuali lavoratori dipendenti degli ospedali, pur di arrotondare il proprio stipendio, a svolgere le cosiddette attività intramoenia, attualmente concesse al solo privilegiato e corporativissimo Ordine dei medici. L’intramoenia è una prestazione privata svolta però all’interno delle strutture pubbliche: in pratica gli utenti possono “saltare” le liste di attesa ricevendo la stessa prestazione dallo stesso medico, ma a un prezzo molto più alto. Una prassi che crea e alimenta una sperequazione nel sistema pubblico allungando i tempi di attesa e la qualità degli interventi specialistici; esempi a portata di tutti sono le lunghissime liste di attesa per radiografie, risonanze, Tac, operazioni chirurgiche e altro. E’ chiaro che allargare la platea dei lavoratori cui è concessa la possibilità di fornire prestazioni private, in quanto liberi professionisti, si tradurrebbe nel metterli in competizione con il sistema pubblico e aggravare così il fenomeno dell’intramoenia, per cui solo chi avrà la possibilità di pagare tariffe sempre crescenti potrà godere del diritto alla cura in tempi ragionevoli. Gli altri dovranno aspettare tempi biblici.
E nel privato? Nell’assistenza privata la costituzione degli Ordini potrebbe essere accolta con sollievo da una vasta platea di dipendenti di aziende o cooperative sociali: la possibilità di lavorare privatamente (nonostante l’alto costo della partita iva) rappresenterebbe per loro una facile via di fuga dalla stringente morsa dell’abbassamento costante degli stipendi e dell’aumento della flessibilità lavorativa. Qualche fortunato/a potrebbe infatti offrire le proprie prestazioni a delle famiglie facoltose. Tuttavia, anche per la maggior parte di questi lavoratori, il miglioramento sarebbe solo un miraggio. La riforma porterà, in primo luogo, ad un peggioramento delle condizioni lavorative. L’obbligo di iscrizione all’ordine consentirebbe infatti l’allargamento di una pratica diffusa nelle cliniche private, ossia il celare, tramite collaborazioni a gestione separata o in regime di partita iva, delle condizioni di lavoro subordinato, sottraendo così diritti a quelli che sono in tutto e per tutto lavoratori dipendenti. Ciò consentirebbe inoltre di trattare le crisi aziendali, frequenti nel settore degli appalti, sottoposto continuamente alla scure dei tagli, scaricando sul lavoratore fintamente “indipendente” – e sul suo Ordine – il rischio di impresa.
Iscriversi agli Ordini implica una rinuncia alla possibilità di fare fronte comune e migliorare le nostre condizioni di lavoro. Perché creare gli Ordini quando le varie professionalità sono assolutamente definite e già operanti nei contratti nazionali? Per difendersi dagli abusi, come la richiesta di prestazioni che esulano dal proprio ruolo professionale, è già possibile lottare sul proprio posto di lavoro, organizzarsi nei sinacati, fare fronte comune e lottare. Affidarsi all’Ordine vorrebbe dire rinunciare a costruire una rappresentanza collettiva dei lavoratori, affidando i propri interessi ad un soggetto terzo che non ne garantirebbe affatto la tutela. Non solo dunque i lavoratori rischierebbero, come abbiamo visto, di diventare più precari, ma si priverebbero anche della possibilità di lottare in prima persona per i loro diritti.
Cosa possiamo fare per difenderci? Nel pubblico, si sta creando un clima di attendismo o peggio ancora di adesione assolutamente passiva della legge 3/2018 da parte dei lavoratori. Manager, direttori e coordinatori stanno invitando i propri sottoposti a frequentare corsi di formazione sulla nuova normativa, aleggia lo spettro del licenziamento per quei dipendenti che non si iscriveranno. Ma c’è ancora qualcosa che possiamo fare per rallentare l’iter applicativo della legge: innanzitutto aspettare che l’obbligo di iscrizione all’Ordine sia ufficialmente richiesto dall’azienda. Una richiesta formale ha infatti la possibilità di essere impugnata o contestata. Iscriversi previa formale richiesta del datore di lavoro ci permetterebbe, ad esempio, di aspettare i lunghi tempi amministrativi delle Aziende e quindi battersi per posticipare, a dopo il 2018, l’anno di pagamento. La piattaforma di iscrizione online è stata attivata solo a Luglio 2018, perché pagare l’intero anno? Potremmo così prendere tempo e pretendere una regolamentazione dell’intramoenia, la separazione tra Albo e Ordine chiedendo così che la cassa annuale venga pagata solo dai lavoratori che effettivamente svolgono una libera professione (i dipendenti potrebbero pagare un contribuito quinquennale o decennale).
Tante sono le possibilità per difendersi da questo ennesimo attacco alle nostre condizioni di lavoro ed alle condizioni del servizio. Faccio appello a tutti i miei colleghi affinché non si prenda per un’opportunità quella che è a tutti gli effetti una fregatura.
Un’educatrice professionista di Firenze