di Nicoletta Dosio
Il carcere di Piacenza appare di lontano come un insieme di cubi bianchi, sorti al confine tra la periferia cittadina e l’aperta campagna che oggi si fa bella di teneri verdi sotto il sole pallido di questa primavera che non vuole prendere il volo.
A prima vista potrebbe sembrare uno degli allevamenti intensivi o delle fabbriche alimentari numerose nella zona, oppure un cronicario per lungodegenti, se non fosse per i muri e le alte cancellate che lo isolano dal paesaggio circostante.
Oggi lungo quei muri sosta una piccola folla di bandiere, si alzano canzoni e slogan: è il presidio di solidarietà antifascista per Giorgio e Lorenzo, i due giovani agli arresti “cautelari” in seguito al corteo antifa del 10 febbraio.
Sono giunta qui con l’europarlamentare Eleonora Forenza , per incontrare i due compagni e visitare quella che con cinico eufemismo viene chiamata “casa circondariale” (ma come sono lontani la casa e gli affetti per chi è costretto a vivere tra queste mura….).
Il corteo dei solidali si spinge lungo le recinzioni, perché la strada verso l’ingresso principale è sbarrata da un cordone di agenti in assetto antisommossa e strettamente transennata.
Il tesserino da parlamentare ha ancora il suo peso. Con qualche difficoltà, superate le transenne materiali e virtuali, entriamo.
Le modalità d’accesso sono quelle già sperimentate in altre carceri: identificazione, compilazione scheda personale, passaggio al metaldetector.
Ad accompagnarci nella visita è la direttrice del carcere, insieme ad alcuni agenti.
Incomincia il viaggio lungo stretti corridoi su cui si affacciano, in questo vuoto pomeriggio domenicale, le porte sprangate del personale educativo e medico; poi proseguiamo per cunicoli, scale, pianerottoli, il tutto ritmato dallo sferragliare dei cancelli che si aprono e si chiudono alle nostre spalle. Le pareti a tinte chiare, gli affreschi vivacemente colorati non valgono ad esorcizzare il senso di oppressione, l’aria ferma, come di tragedia ineluttabile che emanano questi luoghi senza sole e senza speranza.
Giorgio e Lorenzo non sono insieme, essendo stati destinati a reparti diversi.
Il primo a comparire è Giorgio, dietro il cancello che dà accesso alla sezione: sorpresa e commozione, saluti trasmessi e ricambiati. Successivamente incontriamo Lorenzo: stessi abbracci, stesse voci che si incrinano.
Insieme a loro i compagni di detenzione, che si affollano intorno agli insoliti, inaspettati visitatori.
In questi spazi angusti in cui non penetra luce se non artificiale c’è davvero il mondo, si possono ascoltare i mille accenti di un Sud oppresso e diseredato, devastato dalle guerre di un Nord dove fascismo e razzismo sono il facile strumento dell’usa e getta sociale, culturale, ambientale. Qualcuno di loro è ancora tra queste mura anche se sono scaduti i termini di carcerazione, qualcun altro non conosce esattamente le proprie imputazioni, tutti denunciano l’esistenza vuota a cui sono sottoposti, la disperazione del non poter lavorare, la devastante monotonia dei passi sempre uguali, con il pensiero alla famiglia lontana, intrappolati in un tempo che non passa mai. Quei loro racconti, quelle pacate richieste testimoniano ancora una volta, inconfutabilmente, come il carcere non sia luogo di recupero ma lenta agonia.
Nella sezione di Lorenzo pochi giorni fa si è suicidato un giovane detenuto: avrebbe voluto lavorare, mandare qualcosa alla famiglia; poi, ad un tratto la misura della disperazione colma, un cappio al collo, il compagno di cella arrivato troppo tardi ….e via!
Ce ne andiamo col cuore pesante, con la voglia di spalancarli quei cancelli, per permettere a quegli incarcerati di respirare, finalmente liberi, il profumo di terra e di erba portato dal vento della sera.
Nell’ultimo cortile, in un angolo sottratto al cemento, crescono pochi alberelli piumati di gialle infiorescenze, tenaci e commoventi, come le voci di saluto che sentiamo piovere dall’alto, attraverso una imprecisata finestrella.
Oltre le mura, ci aspettano i solidali.
Brevi racconti, gli ultimi slogan: “fuori i compagni dalle galere! dentro nessuno, solo macerie”.
Sul ciglio della strada, fra reti e asfalto, sono fiorite le viole.