Negli ultimi anni si è avuto il costante incremento della popolazione carceraria, oramai di nuovo attestata oltre le sessantamila presenze, con un tasso di sovraffollamento intorno al 130%.
Tale situazione è tanto drammatica quanto normalmente sottaciuta, così i vari governi, che si susseguono, continuano a varare senza sosta nuovi pacchetti sicurezza, al cui centro vi è sempre l’innalzamento di pene, in verità già alte, e la creazione di nuove fattispecie di reato che, molto spesso, vanno a colpire le condotte degli strati più deboli della popolazione.
Nonostante la retorica mainstream inerente il pericolo criminalità organizzata, di stampo mafioso o terroristico, analizzando le statistiche del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) si scopre che poco più del 10% sono i detenuti per reati connessi al 416 bis c.p. ed appena 149 (nell’anno 2018) coloro i quali rispondono di delitti contro la personalità dello stato, quindi ascrivibili alla categorie generale del c.d. terrorismo. La maggioranza della popolazione detenuta risponde di reati contro il patrimonio ed in violazione del testo unico sugli stupefacenti. Reati, tendenzialmente, di non grande allarme sociale e certamente da ricollegare a condizioni di povertà.
La situazione del contenzioso penale e del sovraffollamento carcerario con la riforma in materia di prescrizione, entrata in vigore a partire dal 1 gennaio, andrà sicuramente a peggiorare e continueranno a farne le spese le fasce deboli della popolazione. L’interruzione del decorso del termine prescrizionale dopo la sentenza di I grado farà si che i processi in grado di appello dureranno tempi biblici, così violando il principio della ragionevole durata del processo.
Questa riforma, voluta in particolar modo dal M5S, guarda con attenzione ai settori più intransigenti della magistratura. Infatti, proprio Piercamillo Davigo, componente del Consiglio Superiore della Magistratura e presidente di sezione della Corte di Cassazione, in più occasioni ha affermato la necessità di superare l’istituto della prescrizione, dal momento che essa non sarebbe altro che un’amnistia strisciante:
“Le attuali norme sulla prescrizione rendono in gran parte inutili i procedimenti penali per i reati puniti con pene pari o inferiori a sei anni di reclusione, ovvero la stragrande maggioranza. Riteniamo necessario un intervento legislativo sulla durata e sulla sospensione della prescrizione, in modo da evitare l’effetto distorto di ‘amnistia permanente’ che tale istituto ha assunto nel corso degli anni a causa di un sistema processuale farraginoso e di difficile gestione”
Molto spesso la narrazione dominante ci restituisce un’immagine della realtà giudiziaria che consente ad esponenti di ceti privilegiati, laddove incappano in accuse di corruzione o similari, di farla franca e restare, così impuniti, magari proprio grazie al “cavillo” della prescrizione.
In vero, a seguito delle riforme legislative che nel corso dell’ultimo decennio hanno innalzato le pene per i delitti contro la p.a., i reati di corruzione/concussione e similari sono oramai, da qualche anno, difficilmente prescrittibili.
Quasi impossibile è raggiungere la prescrizione quando si tratta di reati, per fare qualche esempio, quali associazione mafiosa, violenza sessuale, associazione per il traffico di sostanze stupefacenti, i cui massimali di pena sono molto alti e i tempi di prescrizione per legge, art. 157 c.p. , sono addirittura raddoppiati. Per non parlare dell’omicidio che, laddove punito con l’ergastolo, è addirittura imprescrittibile.
Allora dove sta l’urgenza di questa riforma?
Innanzitutto le riforme del sistema penale all’insegna del giustizialismo sono a costo zero ed, in un contesto di perenne campagna elettorale, sono un efficace strumento di raccolta del consenso. Quando non si vuole più investire nelle sicurezza dei diritti, non resta altro che impegnarsi ad affermare il diritto alla sicurezza, quale inizio e fine della convivenza civile. Si torna, così, allo Stato garante delle libertà negative in ossequio al principio del più stretto laissez-faire.
E’ evidente che tale riforma, sebbene in generale riguardi tutte le fattispecie di reato, nei suoi effetti concreti riguarderà proprio quei reati puniti con pene pari o inferiore ai sei anni, essendo proprio questi reati ad effettivo rischio di prescrizione. Si tratta, per fare qualche esempio, dei reati di natura predatoria ed in particolare delle varie fattispecie di furto ( furto aggravato, furto con strappo, furto in abitazione, furto di energia elettrica), dell’occupazione di terreni ed edifici ( fenomeni che aumentano la propria presenza in un contesto di crisi di abitativa, pensiamo alle vicende della residenza sociale “Aldo dice 26×1” tra Sesto San Giovanni e Milano, all’ex Penicillina a Roma, alla vicenda del comitato “prendo Casa” a Cosenza), dei reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale ed, infine, dell’ipotesi lieve del delitto di detenzione ad uso non esclusivamente personale di stupefacenti. Si nota immediatamente che tali reati non costituiscono certo espressioni di criminalità organizzata o delitti contro la personalità dello Stato, ma sono proprio i delitti che vengono compiuti da coloro i quali vivono ai margini della società.
Tale riforma si lega a quanto richiesto in più occasione da alcuni esponenti della magistratura e dai vertici del DAP relativamente alla necessità di costruire nuove carceri, con una capienza di 5000 persone, al fine di risolvere il problema del sovraffollamento. Di certo, quando la riforma sulla prescrizione inizierà a produrre i suoi effetti o dovranno essere costruite nuove carceri o si dovrà fare come in Germania in cui vi sono le liste d’attesa per entrare negli istituti e scontare la pena, così da evitare la problematica del sovraffollamento carcerario e la conseguente violazione dei diritti umani. Considerando le scelte storiche italiane in materia di politica penitenziaria e gli annunci del Ministro della Giustizia Bonafede che promette di investire nel settore giustizia 500 milioni di euro, già possiamo immaginare dove si andrà a finire…
Non si tratta, pertanto, di una riforma meramente giuridica, come al contrario viene predicato dagli innumerevoli commentatori che fanno riferimento al diverso funzionamento della prescrizione negli altri paesi europei o negli USA, ma trattasi di un atto politico, la cui finalità è una sola: punire con maggiore determinazione i poveri che, in un contesto di crisi economica e sociale, sono in costante aumento.
Un vasto arco politico ed alcuni settori delle istituzioni hanno voluto questa riforma proprio perché rappresenta un ulteriore tassello per la costruzione dello Stato penale, uno Stato che, ritraendosi dai propri compiti sociali, investe nelle politiche di sicurezza al fine di contenere e governare il conflitto sociale.
Le ragioni giuridiche contro la recente riforma si fondano sul principio della ragionevole durata del processo e sul venir meno dell’interesse dello Stato alla pretesa punitiva nei confronti dell’autore di un determinato reato, come conseguenza del trascorrere del tempo.
Sotto altro profilo, nell’attuale realtà fatta di sovraffollamento carcerario, sovraccarico del sistema giudiziario e, soprattutto, aumento della povertà diffusa, contro la nuova disciplina appare militare una ragione di natura politica: l’effetto estintivo della prescrizione, nella sua previgente formulazione, realizzava, seppur in minima parte, gli effetti di quella amnistia che il sistema politico non intende approvare.
Pertanto, un percorso di lotta, teso a contrastare la recente riforma dell’istituto della prescrizione e a promuoverne l’abrogazione, ha senso se si salda all’inizio di una campagna di propaganda a favore di provvedimenti clemenziali quali amnistia e indulto (l’ultima amnistia è del 1990 e l’ultimo indulto è del 2006). Provvedimenti di questo tipo, oggi più che mai, hanno una valenza politica, perché solo politicamente si può porre fine all’iperincarcerazione della povertà che in modo sempre più aggressivo si sta realizzando. Oggi amnistia non vuol dire dimenticare il male fatto dal reo e così perdonarlo, ma rappresenterebbe una rilettura critica delle politiche securitarie dello Stato. L’amnistia non sarebbe un atto di clemenza, ma un atto di giustizia sociale e politica che riequilibrerebbe l’uso eccessivo del diritto penale, che si è fatto nell’ultimo quarto di secolo, in un’ottica squisitamente retributiva della pena e tesa alla neutralizzazione de reo.