“Quale premier eletto potrebbe far questo?” – si chiede un ex deputato di Forza Italia, oggi nelle file del partito centrista “Azione”, parlando della pioggia di applausi caduti sul Presidente della Repubblica italiana, Mattarella, all’indomani del suo discorso dell’ultimo dell’anno.
Da Giorgia Meloni che si affretta a telefonargli per metterlo a conoscenza della “piena condivisione” ad Elly Schlein, segretaria del PD, che evidenzia che “il presidente ha riaffermato i valori e i principi della Carta costituzionale […] pace e giustizia sociale, per il progresso e l’affermazione della democrazia”; dal leader del M5S, Giuseppe Conte, che definisce il messaggio “un inequivocabile stimolo a cambiare le cose, a non rassegnarci. Non possiamo che accogliere l’appello a non abituarci all’orrore della guerra e a lavorare subito, urgentemente, per la pace” al Vicepresidente del Consiglio e segretario della Lega Salvini: “il presidente pronuncia parole chiare su pace e lotta a ogni forma di terrorismo”; da Matteo Renzi, ex presidente del Consiglio del PD e oggi leader della centrista Italia Viva, che apprezza le “parole di umanità” a Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana, che letteralmente esulta: “Grazie presidente! Un discorso straordinario!”.
16 minuti di discorso di Mattarella e nessun politico o giornalista che proferisca una sola critica.
Eppure, in un’Italia in cui tutti sembrano novelli Don Abbondio – “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare” – c’è estrema necessità di uno sguardo critico, a partire da due dei temi più citati del suo messaggio agli italiani: guerra e giovani.
Mattarella ha messo al centro del suo discorso il tema della violenza, esordendo – giustamente – con la “violenza delle guerre”. Inevitabili i riferimenti a ciò che “vediamo nell’Ucraina, invasa dalla Russia, per sottometterla e annetterla”. E subito dopo a ciò che accade a Gaza: “l’orribile ferocia terroristica del 7 ottobre scorso di Hamas contro centinaia di inermi bambini, donne, uomini, anziani d’Israele. Ignobile oltre ogni termine, nella sua disumanità”.
Con un riferimento anche agli attacchi di Tel Aviv: “la reazione del governo israeliano, con un’azione militare che provoca anche migliaia di vittime civili e costringe, a Gaza, moltitudini di persone ad abbandonare le proprie case, respinti da tutti”. Parole che sono state raccolte e citate da diversi “progressisti parlamentari” per esaltare il messaggio del Capo dello Stato.
Tuttavia, le parole di Mattarella su quanto succede in Palestina risultano pienamente in linea con quelle che da settimane esprime anche Biden e la sua amministrazione: a Gaza non c’è un massacro, men che meno un genocidio. Né “catastrofe umanitaria”, né “cimitero di bambini”, parole usate dal segretario ONU Guterres. C’è, più semplicemente, una “reazione” un po’ eccessiva di Israele al terrorismo di Hamas.
In questa lettura i 100 giornalisti palestinesi ammazzati e i più di 130 funzionari ONU uccisi dal 7 ottobre a oggi non possono essere altro che il risultato di un “eccesso di difesa”. I 30mila palestinesi uccisi dalle bombe e dall’artiglieria dell’IDF (Israeli Defence Forces), le migliaia di donne e bambini cui è stato tolto un futuro, effetti collaterali di una guerra comunque giusta.
Mattarella è poi passato a toccare le manifestazioni della violenza su altri terreni. Da quella contro le donne alla rabbia che cresce nelle periferie, passando per la in-sicurezza sul lavoro.
In ogni passaggio c’è un tratto comune: tutti i fenomeni hanno una comune radice, di natura principalmente culturale. E così alle guerre si mette fine facendo spazio “alla cultura della pace. Alla mentalità di pace. […] Costruirla significa, prima di tutto, educare alla pace”. Alla violenza machista insegnando soprattutto “ai più giovani” che “l’amore non è egoismo, possesso, dominio, malinteso orgoglio”, ma “dono, gratuità, sensibilità”.
Nel discorso di Mattarella non c’è spazio alcuno per una dimensione strutturale, non si delineano i rapporti di potere che sono alla base della violenza. In fondo, se la guerra “nasce da quel che c’è nell’animo degli uomini”, la pace è cosa di preti o al massimo di maestri.
E anche quando si affronta la questione giovanile, risalta più una morale volta a ripristinare valori perduti, che a offrire risposte a un disagio crescente e che si manifesta in forme molteplici.
Il Presidente della Repubblica constata un disorientamento, se non una estraneità dei giovani “a un mondo che non possono comprendere e di cui non condividono andamenti e comportamenti. Un disorientamento che nasce dal vedere un mondo che disconosce le loro attese”.
La soluzione? Per Mattarella è la “partecipazione attiva alla vita civile. A partire dall’esercizio del diritto di voto. Per definire la strada da percorrere, è il voto libero che decide. Non rispondere a un sondaggio, o stare sui social”.
Ciò che Mattarella fa finta di non capire è che la diminuzione del tasso di partecipazione attiva dei giovani è intrinsecamente legato a quel disorientamento e a quell’estraneità che pure egli stesso denuncia. Per certi versi ne è l’effetto. Per cui un moralistico invito alla partecipazione – intesa tra l’altro principalmente come voto e quindi in termini restrittivi – sembra quasi una beffa.
Se ci si rinchiude in sé stessi, se stati d’animo sempre più tipici di ampie fasce di popolazione – non solo giovanile – sono angoscia, ansia e rassegnazione è perché si è rotta la freccia della storia e il futuro non solo non appare affatto chiaro, ma addirittura sembra un tempo foriero solo di pericoli e cadute e non di trasformazioni positive.
Per decenni ci è stato promesso un costante miglioramento, purché avessimo seguito valori, principi, comportamenti della società del capitale (studia, lavora senza stare a guardare all’orologio né tantomeno alla busta paga, competi) e ci troviamo oggi nel tempo del crollo di quella che si è rivelata un’illusione. Con l’aggravante di una crisi egemonica per cui le classi dominanti, a livello planetario, non sono in grado di sostituire alla vecchia una nuova visione. E con le classi subalterne che faticano a costruirne una propria, intrappolate in un eterno presente, in cui la dimensione strategica lascia il passo a soli accorgimenti tattici senza respiro.
Di questa dimensione, tanto strutturale, quanto soggettiva, Mattarella non dice nulla. E non per cattiveria, ma perché “non può comprendere”, perché è esponente di un vecchio mondo che sta scomparendo senza però che uno nuovo si scorga all’orizzonte.
In sintesi, il discorso di fine d’anno di Mattarella non è il messaggio ineccepibile di un Capo di Stato illuminato, ma un elenco di parole vuote o, al massimo, di buoni propositi che cadranno col passare inesorabile delle settimane.
Se vuoi abbattere gli omicidi sul lavoro, non bastano gli appelli, ma l’organizzazione politica e sindacale di lavoratori e lavoratrici per imporre agli imprenditori il rispetto degli standard di sicurezza e per intraprendere una dura battaglia contro la precarietà, che significa profitti per loro e insicurezza per noi.
Se vuoi che ci siano alloggi pubblici per le classi popolari e per gli studenti del nostro Paese, serve che si combatta contro chi – da destra e da sinistra – affida ai privati il soddisfacimento di uno dei bisogni primari, quello a un tetto sulla testa, e che destina i soldi del PNRR più a foraggiare privati che a dare risposte ai bisogni popolari.
Se vuoi che femminicidio non sia più parola dell’anno (come decretato dall’enciclopedia Treccani per il 2023), non basta un linguaggio più corretto né una (a oggi fumosa) educazione sentimentale: serve sovvertire i rapporti di potere nel corpo della società.
Perché quello che serve non è mero afflato etico, non è una religione civica dei buoni sentimenti, ma la politica.