Il 7 ottobre 2025 segnerà il secondo anniversario del genocidio in corso da parte di Israele a Gaza. La pagine dei dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulle vittime palestinesi, aggiornata regolarmente con le cifre fornite dal Ministero della Salute palestinese e dalle agenzie delle Nazioni Unite, mostra che circa 66.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza negli ultimi due anni, ovvero 30 persone su 1.000 che vivevano a Gaza (questi numeri, tuttavia, potrebbero essere troppo bassi, poiché il ministero ha spesso ammesso di non essere in grado di tenere il passo con il ritmo di morti e di non sapere quante persone siano sepolte sotto le tonnellate di macerie).
L’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia, l’UNICEF, calcola che 50.000 bambini palestinesi siano stati uccisi o feriti. Come ha affermato Edouard Beigbeder, direttore regionale dell’UNICEF per il Medio Oriente e il Nord Africa e veterano dell’UNICEF con vent’anni di esperienza:
Questi bambini – vite che non dovrebbero mai essere ridotte a numeri – fanno ora parte di una lunga e straziante lista di orrori inimmaginabili: gravi violazioni contro i bambini, blocco degli aiuti, fame, costanti sfollamenti forzati e distruzione di ospedali, sistemi idrici, scuole e case. In sostanza, la distruzione della vita stessa nella Striscia di Gaza.
Il 16 settembre, la Commissione internazionale d’inchiesta indipendente dell’ONU sui territori palestinesi occupati ha pubblicato un rapporto di settantadue pagine ricco di fatti che concludeva “su basi ragionevoli” che il governo israeliano, i suoi alti funzionari e l’esercito avevano commesso e continuavano a commettere atti (actus reus) di genocidio con l’intenzione di commettere tali atti (mens rea). Questo giudizio è molto più ampio della conclusione della Corte internazionale di giustizia del gennaio 2025, che ha trovato prove “plausibili” di genocidio. La commissione è guidata da Navi Pillay, ex giudice dell’Alta Corte sudafricana e della Corte penale internazionale, che ha ricoperto la carica di Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani dal 2008 al 2014. Nella sua dichiarazione alla stampa dopo la pubblicazione del rapporto, è stata chiara e diretta: “La Commissione ritiene che Israele sia responsabile del genocidio a Gaza. È chiaro che esiste l’intenzione di distruggere i palestinesi a Gaza attraverso atti che soddisfano i criteri stabiliti nella Convenzione sul genocidio”.
Non c’è bisogno di discutere ulteriormente il caso. Queste sono le parole più forti possibili.
A metà settembre ho visitato i campi profughi palestinesi in Libano, dove lo stato d’animo oscilla tra sconforto e resilienza. Almeno quattro generazioni di palestinesi vivono in tre dei più grandi campi palestinesi del Libano: Ain al-Hilweh, fondato a Saida nel 1948 dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR); Shatila, fondato a Beirut nel 1949 dal CICR; e Mar Elias, fondato a Beirut nel 1952 dalla Congregazione di Sant’Elia.
2. La seconda generazione di rifugiati palestinesi, la prima nata nei campi profughi. Essi costituirono il nucleo della resistenza armata come fedayeen (combattenti) attraverso varie nuove organizzazioni politiche palestinesi come Fatah (fondata nel 1957), l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (fondata nel 1964) e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (fondato nel 1967).
3. La terza generazione, nata negli anni ’70 e ’80, raggiunse la maggiore età durante l’occupazione israeliana del Libano (1982-2000) e si fece le ossa politicamente nella prima Intifada (1987-1993) e nella seconda Intifada (2000-2005). Molti di loro si sono allontanati dalle organizzazioni della generazione precedente e sono entrati nella Jihad islamica palestinese (fondata nel 1981) e Hamas (fondata nel 1987).
4. La quarta generazione, nata negli anni ’90 e dopo, che è cresciuta in un periodo di opportunità sempre più limitate nei campi e con un crescente senso di futilità e rabbia.
Quattro generazioni hanno vissuto in questi campi, lontani dalle loro case in Palestina, dal 1948. Guardano a sud e si chiedono quando potranno esercitare il loro diritto al ritorno, un diritto garantito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite del dicembre 1948.
Sia in Cisgiordania che in Giordania o in Libano, il senso di rabbia assoluta e disperazione nei campi profughi è travolgente. I palestinesi che vivono lì guardano le immagini provenienti da Gaza, la distruzione assoluta e il genocidio inarrestabile. Si sentono impotenti. L’impulso di prendere le armi e combattere per difendere il popolo di Gaza è travolgente ma impossibile. Si sentono scherniti dagli israeliani, il cui freddo assassinio di bambini palestinesi porta la rabbia al punto di ebollizione. Alcuni di questi giovani mi hanno preso da parte a Shatila e mi hanno mostrato un video virale di un professore cinese, il dottor Yan Xuetong dell’Università di Tsinghua, che discuteva con un rappresentante militare israeliano, il colonnello Elad Shoshan, al Forum di Xiangshan a Pechino nel settembre 2025.
Nel frattempo, a Midan al-Jundi al-Majhool (Piazza del Milite Ignoto) nella città di Gaza, il suono della musica si diffonde nell’aria. Ahmed Abu Amsha, insegnante di musica al Conservatorio Nazionale di Musica Edward Said, sfollato almeno dodici volte durante il genocidio, riunisce i bambini per formare un gruppo chiamato Gaza Birds Singing. Abu Amsha e i suoi studenti creano le loro armonie, una tela sonora di chitarra e canto, attorno al ronzio ambientale dei droni che volano sopra le loro teste.
Una delle loro canzoni più popolari è Sheel sheel ya Jamali (Porta, porta, o mio cammello), un canto palestinese molto conosciuto:
Porta, porta, o mio cammello,
Sopporta il carico nel nome di Dio.
Il sangue del martire è profumato di cardamomo,
O notte, lascia il posto all’alba.
Guai, guai al tiranno,
il giudizio di Dio cadrà.
Nessuna ombra può nascondere le stelle della notte –
io grido per lui.
Dobbiamo abbattere il tiranno.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della quarantesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.