“Pure a 90 anni, se anche mi rimanesse un solo dente, non vi chiederò il mio rilascio. Perché non siete stati voi a mettermi in prigione e non siete voi che potete rilasciarmi. Sono un ostaggio politico e gli ostaggi politici non possono chiedere di essere liberati.”
Selahattin Demirtaş
C’è un uomo in Turchia che rischia 142 anni di carcere. La sua colpa quella di aver scritto articoli, di aver rilasciato interviste, di aver pronunciato discorsi. Il suo nome è Selahattin Demirtaş e dal 4 novembre 2016 è in stato di arresto. Di quell’operazione degli apparati repressivi dello Stato turco non fu l’unica vittima: con lui anche Figen Yüksekdağ e altre sette persone.
Tutti membri dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli), di cui Demirtaş e Yüksekdağ erano i due co-presidenti, i due leader. L’HDP rappresenta la voce dei curdi dell’Est del Paese, ma anche di tanti turchi, circassi, pomacchi. Tra le forze istituzionali è il principale bersaglio del regime di Erdogan, che gli ha più volte scatenato contro la magistratura, che ha ordinato arresti del tutto arbitrari, e le Forze Armate, con una repressione militare degna di uno Stato in guerra contro il suo popolo.
Dal momento dell’arresto, Demirtaş è rinchiuso nel carcere di Edirne. Dal 23 al 25 gennaio riprenderà il processo. I giudici hanno accorpato 31 procedimenti giudiziari, con 31 capi di imputazione differenti. Demirtaş è accusato di aver costruito un’“organizzazione armata terrorista”, di “propaganda a favore di un’organizzazione terrorista”, di incitazione all’odio, al crimine, alla violazione della legge e così via. Le sue armi? La parola, scritta e orale, l’organizzazione di incontri e manifestazioni. Il sale della democrazia. Che, evidentemente, non è di casa nella Turchia di Erdogan.
La stessa Corte Europea per i Diritti Umani (CEDU) solo un mese fa ha dichiarato che la prigionia di Demirtaş ha l’obiettivo di “soffocare il pluralismo e limitare la libertà del dibattito politico”, chiedendo il suo rilascio dalla detenzione pre-giudiziaria.
Non ci vogliamo limitare ad aggiungere la nostra voce a quella di quanti considerano il processo contro Demirtaş un processo chiaramente politico. Per noi Demirtaş è un prigioniero politico, un ostaggio nelle mani del regime di Erdogan. La solidarietà internazionale dovrebbe stringersi intorno all’ex co-presidente dell’HDP e accendere i riflettori sul processo.
Nel buio e nel silenzio le mani della repressione turca non esiterebbero a comminare una pena esemplare, così da eliminare uno dei nemici più pericolosi del “Sultano”.
Seguiremo il processo, diffonderemo le informazioni, i comunicati stampa, le dichiarazioni di Demirtaş e dell’HDP.
Ma in questa situazione non basta la denuncia del governo del “Sultano” La sua forza, infatti, deriva anche dagli appoggi e dalle connivenze internazionali. Deriva dai soldi che l’UE continua copiosamente a versare nelle casse di Ankara, così come dagli occhi delle istituzioni europee che puntualmente guardano dall’altra parte ogni volta che Erdogan reprime i popoli che abitano la Turchia.
Complice è anche il governo italiano, che continua a fare affari d’oro con la Turchia. Non basta qualche parola di circostanza. Anche perché Erdogan sa benissimo quanto valgano quelle dei governi della UE.
Demirtaş libero subito!