Fonte: Contropiano
Di Giacomo Marchetti
Davide Angelilli è un militante da tempo impegnato in progetti di educazione popolare, prima alla scuola Carla Verbano al Tufello e oggi a San Basilio, ed un attivista che ha sempre coniugato una spiccata coscienza internazionalista con l’iniziativa territoriale. Ha partecipato organicamente all’attività di Potere Al Popolo sin dagli esordi ed ora è candidato in questa importante parte della città come presidente di Municipio
La possibilità di presentarsi con liste di Potere Al Popolo alle elezioni amministrative sono state un’ottima opportunità – lì dove si è concretizzata – per dare una continuità al progetto e di riconfrontarsi con il blocco sociale su temi che vanno a investire direttamente i territori. Cosa vi ha spinto a “riaccettare” la sfida anche per le amministrative e a candidarti come “presidente”?
Oggi in Italia la politica istituzionale è qualcosa di veramente triste, i partiti sono lontani dal popolo, il consenso e l’attivismo che generano sono prettamente virtuali. In questo scenario, ovviamente, la dinamica elettorale è tutt’altro che costruttiva: una caccia al voto fredda e superficiale.
Tuttavia se vogliamo uscire dalle caverne non possiamo permetterci di lasciare spazi vuoti, tantomeno di fare solamente quello ci piace e ci sembra bello, dobbiamo invece agire sui piani che ci sembrano utili e costruttivi. In questo senso, quello elettorale diventa un momento cruciale nella costruzione di un nuovo soggetto popolare che parta dal sociale per cambiare le relazioni di potere sul piano politico nazionale.
Lo dico perché le elezioni sono un momento di confronto e dibattito a cui tanti e tante cittadine ancora partecipano. Per me quest’ultima campagna elettorale è stata un’importantissima occasione di crescita personale. Mi ha dato la possibilità di confrontarmi con vicini di casa, famigliari, conoscenti, amici, e non perché è stato l’inizio del mio attivismo. Il punto è un altro: la creazione di Potere al Popolo ci ha permesso di essere rintracciabili nella società, e questa è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per ristabilire una connessione con il popolo. Nel mondo di oggi se non sei rintracciabile, identificabile con una visione del mondo generale, è molto difficile entrare in contatto con le persone. C’è poi la questione della concretezza; le elezioni ci obbligano a trasformare la nostra visione del mondo in un programma politico fattibile ma allo stesso tempo anche appetibile, comprensibile, attrattivo.
Le elezioni sono così un momento di costruzione e allargamento fondamentale per non condannare alla fragilità e all’isolamento il conflitto sociale e politico, che resta comunque il motore centrale per un processo come il nostro di trasformazione radicale della società italiana. Un processo in cui al centro ci devono essere i giovani, le giovani. Non perché sono eticamente migliori o politicamente più preparati, ma perché vivono con più forza le contraddizioni del capitalismo oggi in Italia, e perché senza lo slancio di una nuova generazione di militanti è veramente complicato ricostruire un’alternativa popolare a questa barbarie.
Il Terzo municipio è “una città nella città” nel territorio metropolitano della Capitale con i suoi più di 200.000 abitanti e la presenza contemporanea della “vecchia” e della “nuova” periferia capitolina. Puoi descrivere brevemente, a chi non lo conosce, questa porzione di territorio e la popolazione che ci vive?
Roma non è più una città caratterizzata da un centro e da una periferia, è diventata oramai un “territorio di territori” con tanti centri e tante periferie. Basti pensare che da solo il terzo municipio, con i suoi 250 mila abitanti, sarebbe il dodicesimo comune più grande di Italia. Un territorio importante, per motivi storici ma anche attuali. Qui a Montesacro ci fu il primo sciopero della Storia nell’età della Roma imperiale; Simón Bolívar giurò di liberare i popoli dell’America Latina; negli anni ’70 ci fu un grande movimento rivoluzionario ben rappresentato dalla figura di Valerio Verbano.
È un municipio dove i palazzoni popolari senza manutenzione dell’estrema periferia di Vigne Nuove convivono con gli attici di Città Giardino, cui valore supera il milione di euro. Ma è anche il territorio di Porta di Roma, uno dei più grandi centri commerciali in tutta Europa, frutto dell’alleanza tra il Pd “illuminato” di Rutelli e Veltroni e i palazzinari. Porta di Roma ha completamente stravolto la geografia economica di tutto il territorio, ammazzato interi quadranti economici, generato migliaia di posti di lavoro precari, un “non luogo” in cui le più grandi multinazionali partecipano al mercato capitalista globale giocando al ribasso sui diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Ma Porta di Roma per diversi quartieri del municipio è anche l’unico posto dove andare a sentire un buon concerto dal vivo l’estate… il simbolo di una città privatizzata.
Insomma, questo è un municipio importante per mettere in piedi una visione di città alternativa al nuovo sistema Lega-Movimento 5stelle, ma anche al Pd e quindi a quella “sinistra” che per prima ha venduto e distrutto l’anima popolare di Roma.
I Municipi vivono una condizione particolare, soprattutto le aree periferiche sempre più omogenee per la tipologia di problemi che affrontano al di là della città in cui sono collocate. Da un lato si accumulano nelle peroferie le contraddizioni dell’attuale sistema di vita e, per reazione le aspettative di cambiamento del corpo sociale, dall’altra sono ostaggio, a livello di possibilità di spesa e di orientamento amministrativo del “patto di stabilità” a livello cittadino. Questo è collegato all’obbligo di pareggio di bilancio introdotto con la modifica dell’articolo 81 della costituzione, su cui Palp, a livello nazionale, sta conducendo una campagna di raccolta firme per un referendum abrogativo. Come intende muoversi Potere al Popolo in questa situazione non facile, mentre la Giunta Raggi sta favorendo quella configurazione di interessi che storicamente hanno governato la capitale?
Il 10 giugno si vota nel nostro municipio, il terzo, ma anche nell’ottavo. In tutti e due i programmi, trai primi punti c’è precisamente l’impegno per eliminare il pareggio di bilancio dalla Costituzione. Diverse persone mi hanno fatto notare che “non è un tema municipale”, quindi colgo l’occasione di questa domanda per spiegare ulteriormente le ragioni di questa scelta.
Come ti dicevo prima, la campagna elettorale per me è principalmente un momento di confronto con le persone. Andando per i mercati ti rendi subito conto che il problema principale, insieme al lavoro, è la mancanza di servizi sociali, da qui poi il sentimento razzista di una parte della popolazione che si vede in contrapposizione con i migranti. Dovremmo riflettere più profondamente sul fatto che il razzismo e l’odio verso i migranti oggi in Italia non gira tanto attorno alla questione del lavoro, ma sulla questione dei servizi sociali, sulla casa, la sanità, etc. etc. Tra lavoratori migranti e italiani sui posti di lavoro c’è spesso grande simpatia, il problema nasce dai servizi sociali che sono stati smantellati e dalla conseguente guerra tra poveri.
Il meccanismo è più o meno questo: grossi tagli alla spesa pubblica per imposizione dell’Unione Europea, una riduzione drastica della spesa sociale che porta allo smantellamento del welfare, crescita del razzismo in quelle parti della popolazione che si vedono colpite da questa macelleria sociale e vengono messe in competizione con i migranti. D’altronde, la destra sovranista fa questo discorso in tutta Europa: “non è possibile lo Stato sociale, da una parte perché l’Unione Europea ci deruba e dall’altra perché non possiamo gestire i flussi migratori, non possiamo aiutare tutta l’Africa”: unisce quindi la giusta critica all’Unione Europea con un discorso razzista anti-immigrati. Il contratto tra Lega e 5stelle è esemplificativo in questo senso, apre un timido conflitto con l’Unione Europea, non nell’ottica di una redistribuzione della ricchezza, ma per fare ulteriori favori ai ricchi!
Noi invece dobbiamo unire la rottura dei trattati europei con l’apertura di un conflitto con i veri responsabili dello smantellamento del welfare, ovvero quelle classi ricche (di cui la “destra sovranista” è espressione) che hanno contribuito a costruire questa Unione Europea e che impediscono la redistribuzione della ricchezza in favore della maggioranza della popolazione. Per aprire questo processo, è fondamentale la soggettività migrante, ma anche il lavoro territoriale in quelle periferie sociale e geografiche dove più forte si vive questa situazione esplosiva.
Hai avuto occasione di conoscere a valorizzare in diverso modo le esperienze della “rivoluzione bolivariana” e dell’ascesa e del consolidamento delle forze progressiste in America Latina. Quello latino-americano è stato ed è un laboratorio ricco di suggestioni e di indicazioni politiche concrete per l’iniziativa anche alle nostre latitudini, come numerose forze politiche innovatrici hanno compreso anche in Europa (France Insoumise e Podemos, ma senza dimenticare la sinistra indipendentista basca e catalana). Come pensi queste esperienze hanno da “offrirci” anche a livello di lavoro territoriale e di base oltre che di “cambio di paradigma” generali per i successi ottenuti?
Aprire un dibattito su cosa ci insegna la Rivoluzione Bolivariana e la sinistra latinoamericana è cosa molto complessa e difficile da affrontare qui e adesso. Di certo vanno chiarite due cose: la prima è che l’America Latina ci dà degli spunti interessanti su processi virtuosi da seguire, ma anche su fallimenti ed errori da non ripetere, proprio per questo è così importante studiare ciò che accade lì. La seconda è che per quanto uno possa ispirarsi alle vittorie latinoamericane non si deve cadere nell’errore di riprodurre qui quel modello. Per usare un termine gramsciano, la traduzione di quelle esperienze su queste sponde è cosa molto delicata e complessa, sia da un punto di vista teorico che pratico.
Un dato oggettivo è che tanto in Venezuela come in Bolivia la sinistra non ha cambiato le relazioni di potere facendo accordi con partiti o unendo vecchie sigle, ma generando attivismo, partecipazione e coscienza in settori della popolazione fino ad allora invisibili, esclusi dalla politica per motivi razziali e di classe. È in quel vuoto che si gioca la partita, nelle periferie metropolitane, tra i migranti, nei ghetti sociali ed economici dove occorre quanto prima tornarci a sporcare le mani.
Se oggi non ci fossero esperienze di governo importanti come quella venezuelana o boliviana, le realtà anticapitaliste occidentali non avrebbero proprio di che parlare, visto che sono le uniche ad aver portato a casa risultati concreti, soprattutto per quanto riguarda il cambiamento delle relazioni di potere a livello politico. Inoltre ciò che accade in America Latina ci riguarda direttamente; Potere al popolo deve essere internazionalista non per vocazione o per rispetto a una tradizione, ma perché c’è sempre una relazione dialettica tra il piano nazionale e internazionale, anche per quanto riguarda la costruzione di un soggetto popolare ancora piccolo come il nostro. Come ti posizioni sulle questioni internazionali, non solo a livello europeo, ti definisce come soggetto sul piano nazionale.
Hai vissuto a lungo, partecipato e fatto un ottimo lavoro informativo su Paesi Baschi. Proprio la sinistra abertzale è stata una delle prime a porre nettamente il tema della critica dell’edificio politico-sociale dell’Unione Europea e la necessità dell’uscita dalla NATO, come prospettiva strategica in cui collocare il proprio operato a vari livelli. Cosa ha ancora oggi da insegnarci quella esperienza che ha fatto dell’internazionalismo uno degli assi centrali del proprio agire?
Sì, ho avuto la fortuna di poter vivere e studiare per tre anni a Bilbao. Posso anche dire che è lì dove si è veramente creata la mia coscienza politica e dove ho fatto esperienza; anche per questo prima di Potere al Popolo non ero appartenente a nessuna organizzazione o sigla politica. Così come per l’America Latina, anche quello sui Paesi Baschi è un discorso molto complesso e delicato.
Senza entrare nello specifico e nell’analisi del momento storico, mi vengono in mente due cose al volo: la prima è che anche lì la sinistra ha perso moltissimo il contatto e radicamento nella società, il che dimostra come il problema sia globale e non solo italiano; la seconda è che nei Paesi Baschi il movimento popolare riesce comunque a resistere ed esistere, questo soprattutto perché hanno sviluppato una fortissima capacità organizzativa che tiene unito il piano politico generale con le tante esperienze di autogestione e potere popolare che esistono.
Attualmente, visto che la sinistra indipendentista non riesce più a svolgere un ruolo di direzione e avanguardia, anche lì si corre un rischio di disgregazione e frammentazione politica. Di certo, se c’è una cosa che possono insegnarci i Paesi Baschi è che l’unità è già una piccola rivoluzione, che bisogna sentirsi parte di una comunità per dare veramente anima e corpo a una causa, e che questo è impossibile senza un’organizzazione unitaria che faccia della diversità una ricchezza e non un ostacolo.
Una ultima domanda riguarda la tua, vostra, esperienza di militante di base a San Basilio attraverso la costruzione della scuola popolare di quartiere e in generale le esperienze di lotta condotte in quel quartiere ricco di una storia sociale viva che continua nella resistenza quotidiana dei suoi abitanti e dell’attività condotta dalla Federazione del Sociale dell’Unione Sindacale di Base, in particolare da Asia. Cosa pensi sia possibile mutuare di dell’attività declinandola nel territorio in cui ti candidi e nella costruizione territoriale di Palp, coniugando il conflitto al mutualismo nella cornice politica della rappresentanza?
San Basilio è ubicato proprio al confine con il terzo municipio, si può dire che non è nello stesso municipio ma noi ci sentiamo parte della stessa zona di Roma. È un quartiere molto particolare, dove sin dalla sua nascita si è strappato diritti e dignità. Purtroppo, come tanti altri quartieri di Roma, oggi soffre il vuoto di valori e di cultura provocato dalla società consumista e dalla mancanza di un’alternativa a questo mondo. Ma è proprio in quel vuoto di valori e di cultura che si gioca il destino di una rinascita culturale e politica a Roma come in Italia.
Senza un’alternativa, dalla povertà (che per me non è una cosa meramente materiale) nasce illegalità e criminalità. Così San Basilio è dipinto come “la nuova Scampia”. La risposta che danno a questa situazione la destra e i “paladini della legalità” è Polizia, carcere e repressione. In altri termini rinunciano ad affrontare la causa del problema, che non è semplicemente la mancanza di lavoro e di reddito, ma la crescente disuguaglianza economica che sta distruggendo l’Italia. Noi invece abbiamo il compito di stare in quei quartieri, di rilevarne la bellezza e la ricchezza, perché ce ne è veramente tanta, e di trasformarla in forza politica.
Se noi vogliamo ricreare un fronte popolare, in prima fila – accanto a un dottorando in Scienze Politiche – ci deve essere una mamma di San Basilio che manda avanti tre figli senza nessun aiuto dallo Stato, e che magari oggi vota il movimento 5 stelle. A Roma, senza radicamento e partecipazione nei quartieri popolari, poco ce ne facciamo di un programma più radicale o più a sinistra degli altri, che resta carta straccia. Quei quartieri popolari dove più forti ed esplosive sono le contraddizioni del nostro modo di vita, dove regna l’egoismo, il maschilismo, il menefreghismo, la violenza verso il diverso, ma dove resiste anche un forte senso di solidarietà e di comunità che è nostro compito far germogliare e sbocciare.
Per questo è necessario unire i tanti spazi di mutualismo che già portiamo avanti e crearne di nuovi, per portare cooperazione e unità sociale dove oggi c’è disgregazione e competizione. Partendo dai territori, senza però mai rinunciare all’organizzazione e a una ipotesi rivoluzionaria, senza la quale ci spegniamo e perdiamo l’entusiasmo di cui abbiamo bisogno.
Chiudo citando uno storico militante della sinistra basca, Periko Solabarria, venuto a mancare tre anni fa, che ricordava sempre come se si vogliono cambiare veramente le cose “non serve passeggiare sui tappeti rossi, bisogna calpestare il fango, perché è qui che possiamo lasciare l’impronta”.