Il Piano Colao è in linea con lo ‘stile’ del Governo Conte, basato, quando va bene, su affermazioni banali e generiche, difficilmente contestabili perché prive di contenuti valutabili. Assenza di proposte e misure concrete su tutto ciò che serve realmente al paese e alle persone tranne nel caso in cui si esprime a favore dell’impresa, che di fatto è considerata il perno di tutta l’attività politica e sociale del governo.
La privatizzazione a discapito della nazionalizzazione, la cessione del patrimonio pubblico italiano a favore delle multinazionali, il sostegno ad attività lucrative che servono solo a chi le fa, sono il filo conduttore del piano. Un piano che colpisce ancora una volta i ceti popolari, i cittadini, l’ambiente e il patrimonio culturale considerato come un semplice “brand del Paese”, un asset da sfruttare affinché pochi possano continuare a fare profitto.
Il piano, annunciato a ridosso degli Stati Generali dell’economia, sebbene non sia stato firmato da una stessa componente della task force (Marianna Mazzucato), è una piattaforma già decisa, su cui faranno finta di discutere. Un insieme di ricette economiche e sociali che Confindustria e la finanza non avrebbero mai sperato di veder realizzata in epoca pre-covid19!
Le infrastrutture e l’ambiente vengono definiti un “volano del rilancio”, da far gestire ai privati; manca qualsiasi accenno ad una progettazione su scala nazionale che metta finalmente al centro la tutela dei territori e della salute delle popolazioni. Si punta ancora sulle “grandi opere” – di cui in più punti si raccomanda la realizzazione – anche per favorire un modello di sviluppo turistico insostenibile e aggressivo nei confronti dell’ambiente.
Un vero piano di rilancio dovrebbe invece puntare sulla tutela del territorio sempre più minacciato dall’inquinamento, dal consumo di suolo e dagli effetti devastanti dei cambiamenti climatici in atto, come l’innalzamento dei mari, la perdita della biodiversità, il dissesto idrogeologico diffuso e la desertificazione.
Un territorio che ha bisogno di maggiori investimenti pubblici per il ripristino degli equilibri ecosistemici e idrogeologici, per garantire la sicurezza delle comunità locali, la salute delle persone e la conservazione della biodiversità. Non c’è bisogno delle grandi infrastrutture per l’energia (ancora prevalentemente legata a fonti fossili), per il trasporto e per la produzione di cui si parla diffusamente nel piano ignorando la manutenzione delle strutture esistenti.
C’è invece bisogno di investimenti sostanziosi per le fonti energetiche rinnovabili, per la bonifica e la riconversione di impianti industriali obsoleti e devastanti per l’ambiente, come l’ex Ilva di Taranto o la centrale di Civitavecchia ad esempio, da definire tramite il coinvolgimento diretto delle parti direttamente in causa, ovvero lo Stato, i lavoratori e i cittadini.
Il tocco di Colao si evidenzia invece anche nel silenziare qualsiasi tipo di opposizione popolare e di moratoria territoriale.
Si parla di escludere la legittimità costituzionale dell’opponibilità locale e di eliminare la consolidata giurisprudenza amministrativa in materia sanitaria che trova nei sindaci la massima autorità garante della tutela della salute pubblica. Sono le stesse richieste avanzate dalle compagnie telefoniche che intendono fare profitto, con il lancio della tecnologia 5G, sulla pelle di 60 milioni di cittadini, in dispregio a qualsiasi appello precauzionale avanzato dalla comunità medico-scientifica.
Il piano del Comitato di esperti in materia economica e sociale è quindi un classico progetto neoliberista, in cui l’impresa è il pilastro e lo Stato è la sua stampella, in cui il benessere delle persone e l’ambiente diventano ancelle della produttività industriale e del profitto. La ricetta è liberalizzare, de-legiferare, sempre in funzione degli interessi dell’impresa privata.
Occorre invece una programmazione alternativa per uscire dalla crisi, che favorisca la transizione ecologica e il ritorno, per quanto possibile, a economie circolari che sfuggano alla logica dei mercati finanziari e della globalizzazione.
Le politiche ambientali non possono essere gestite secondo l’assurdo principio che il mercato trova sempre l’equilibrio migliore; questa è una falsità che ha provato fin troppe tragiche conferme.
Senza le comunità direttamente interessate, senza la loro autogestione e il loro coordinamento in una visione d’insieme nazionale e internazionale, tramite la democrazia partecipativa, non si possono trovare gli strumenti migliori per la difesa dell’ambiente e per garantire giustizia sociale per tutte e tutti.
Riportare l’ambiente e le persone (che ne sono parte) al centro della politica, invece dei profitti dell’élite, deve essere la rivoluzione copernicana di questo tempo.