Non sono stupito, purtroppo, della condanna inflitta al collega e amico Davide Falcioni, reo di aver testimoniato, in presa diretta, delle azioni di disobbedienza civile attuate dai No Tav in Val di Susa.
I fatti sono già noti, il giudice lo ha considerato colpevole di “violazione della proprietà privata” e pensare che si era presentato in tribunale come testimone e ne è uscito come indagato prima, condannato ora. In attesa di leggere le motivazioni e senza voler affermare alcuna visione complottistica del presente sorgono però alcune riflessioni.
In primis il giornalismo “scomodo” di inchiesta e realizzato sul campo, incontra sempre più ostacoli in buona parte del mondo. In Turchia si arrestano giornalisti, in Palestina vengono anche – come accaduto recentemente – eliminati dai cecchini, da noi ci si limita per ora ad intimidirne la voce.
A volte sono le organizzazioni criminali a proferire minacce, in altre i gruppi neofascisti che non hanno mai amato un occhio attento sul loro agire, in altre ancora – e questo è più grave – sono le stesse istituzioni che dovrebbero garantire libertà di stampa e di informazione, a colpire.
Recentemente è stato reso noto che un corrispondente italiano di The Guardian è stato sottoposto ad intercettazioni telefoniche perché scriveva in merito alle inchieste contro le Ong che salvano i migranti in mare, in numerosi casi, ma con una pericolosa accelerazione negli ultimi tempi, gli operatori dell’informazione che si sono mossi su crinali poco graditi al potere ne hanno subito le conseguenze.
Non ci si può certo poi lamentare se nella classifica che determina il livello della libertà di stampa nel mondo, l’Italia continua a occupare posizioni estremamente critiche.
Da noi c’è spazio forse anche eccessivo per un giornalismo fatto di scandali polverone, utilizzati come arma di distrazione di massa, per servizi di dubbio gusto che scavano nei drammi personali soprattutto di chi non si può difendere, ma scarsi margini di manovra per chi prova a raccontare in maniera non edulcorata, le tante contraddizioni di questo paese in questa epoca.
C’è però un secondo punto su cui a mio modesto avviso si dovrebbe prestare attenzione.
C’è un nesso fra la ricerca spasmodica di un giornalismo embedded e l’istituzione del “reato di solidarietà”? A mio avviso si e credo di poterlo affermare in base ad una semplice ricerca empirica.
Le navi delle Ong oggi bloccate da illegali Codici di condotta o sequestrate da giudici in cerca di gloria, nelle loro missioni in mare aperto, da tempo, hanno cominciato a portare con se giornalisti per dar modo di conoscere anche ai non addetti ai lavori quali sono le condizioni di rischio, di vita e troppo spesso di morte, che si verificano nel Mediterraneo Centrale.
Con i nuovi bandi e le interpretazioni spesso colorite e bizzarre fornite dal Viminale, da questure e prefetture, è negato sovente ai giornalisti l’accesso ai CPR (gli ex CIE) dove sono detenuti i migranti in attesa di espulsione, ai centri di accoglienza straordinari CAS, agli Hotspot. Eppure li si racconta come luoghi di delizia e di piacere.
Da cosa deriva il timore della stampa? In numerosi casi ultimamente, per ragioni di “sicurezza”, i primi che le forze dell’ordine tentano di allontanare durante sgomberi di stabili occupati, manifestazioni di piazza, proteste di ogni tipo, sono i giornalisti.
Spesso coloro che si recano in tali situazioni hanno la colpa di voler raccontare la vita di chi se la passa male e magari anche di solidarizzare con chi è costretto ai margini. Vale per chi si interessa dei migranti, per chi ha a cuore la sorte di poveri o di lavoratori, per chi vuole fare informazione in merito a vertenze ormai assurte ad alto valore simbolico come la TAV.
E l’impressione che se ne ricava, dato anche il contesto politico post elettorale, è quella di un ulteriore giro di vite. La condanna di Davide Falcioni, ottimo giornalista che, come ha già detto, continuerà a svolgere il suo mestiere senza farsi intimorire, è un segnale pesante rivolto soprattutto ai tanti e alle tante che, soprattutto grazie a status lavorativi precari e parcellizzati in cui la figura della “collaborazione occasionale” è divenuta norma.
Si tratta di un monito puro e semplice che non solo ci farà fare altri passi indietro nella già citata classifica relativa alla libertà di informazione, ma che, in assenza di un intervento netto dell’Ordine, del sindacato, della politica seria e della società civile che ha il diritto di essere correttamente informata farà divenire norma il silenzio o una condanna.
Stefano Galieni