*L’8 gennaio, grandi folle di persone vestite con i colori della bandiera brasiliana sono scese nelle strade della capitale del Paese, Brasília. Hanno invaso gli edifici federali, tra cui il Congresso, il Tribunale Supremo e il Palazzo presidenziale, e compiuto atti di vandalismo su beni pubblici. L’attacco condotto da chi sostiene l’ex presidente Jair Bolsonaro non è stato una sorpresa; da giorni si stavano organizzando “manifestazioni del fine settimana” sui social. Quando una settimana prima, il 1° gennaio 2023, Luiz Inácio Lula da Silva (noto come Lula) ha formalmente prestato giuramento diventando il nuovo presidente del Brasile, non era successo nulla di simile; sembra invece che i vandali abbiano aspettato che la situazione in città si fosse tranquillizzata e Lula fuori città. Per quanto spavaldo, l’attacco è stato un atto di estrema vigliaccheria.
Mentre succedeva tutto ciò, lo sconfitto Bolsonaro non si trovava nei pressi di Brasília. Era fuggito dal Paese prima dell’insediamento di Lula – presumibilmente per sottrarsi ad azioni penali – e ha cercato rifugio negli Stati Uniti, a Orlando (Florida). Anche se Bolsonaro non si trovava a Brasília, i/le bolsonaristas hanno lasciato il loro segno in tutta la città. Già prima che Bolsonaro perdesse le elezioni contro Lula lo scorso ottobre, Le Monde Diplomatique Brasil aveva previsto che il Brasile avrebbe vissuto un “bolsonarismo senza Bolsonaro”. Questa previsione è confermata dal fatto che il Partito Liberale di estrema destra, il veicolo politico di Bolsonaro durante la sua presidenza, controlla il numero più grande di rappresentantisia ala Camera sia al Senato, mentre l’influenza tossica della destra persiste nelle istituzioni brasiliane e nel clima politico generale, specialmente sui social.
Gli slogan e i cartelli che hanno riempito Brasília l’8 gennaio non riguardavano tanto Bolsonaro quanto l’odio contro Lula e contro un governo potenzialmente a favore del popolo. Questo sentimento è condiviso da importanti settori del big business, soprattutto dell’agrobusiness, furiosi per le riforme proposte da Lula. L’attacco è stato in parte il risultato della frustrazione accumulata dalle persone che – grazie a campagne di disinformazione intenzionali e all’uso del sistema giudiziario (lawfare) per disarcionare il partito di Lula (il Partito dei Lavoratori, PT) – si sono fatte indurre a credere che Lula sia un criminale, malgrado i tribunali abbiano stabilito la falsità di queste accuse. È stato anche un avvertimento da parte delle élite brasiliane. La natura indisciplinata dell’attacco a Brasília ricorda l’attacco del 6 gennaio 2021 al Campidoglio degli Stati Uniti da parte dei sostenitori dell’ex presidente statunitense Donald Trump. In entrambi i casi, le illusioni dell’estrema destra – che si tratti dei pericoli del “socialismo” del presidente statunitense Joe Biden o del “comunismo” di Lula – simboleggiano la loro ostile opposizione alla più mite politica contro l’austerità neoliberista.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 e l’inaridimento del Progetto terzomondista causato della crisi del debito, ha prevalso l’agenda della globalizzazione neoliberista a guida statunitense. Questo programma è caratterizzato dal ritiro dello Stato dalla regolamentazione del capitale e dall’erosione delle politiche sociali. Le conseguenze di questa svolta neoliberista sono state principalmente due: in primo luogo, una rapida crescita delle disuguaglianze sociali (con pochi miliardari a un estremo e sempre più povertà all’altro) e un’esacerbazione delle disuguaglianze Nord-Sud; in secondo luogo, il consolidamento di una forza politica “centrista” che finge che la storia, e quindi la politica, sia finita e che si tratti solo di “amministrare” lo Stato (in Brasile questo centro si chiama centrão).
La maggior parte dei Paesi del mondo è vittima sia dell’agenda neoliberista dell’austerità sia di questa ideologia della “fine della politica”, che ha assunto carattere sempre più anti-democratico, rendendo legittimi e possibili i “governi di tecnocratici”. Tuttavia, queste politiche di austerità – che mirano all’umanità stessa – hanno prodotto una nuova politica nelle strade, una tendenza che è stata preannunciata dalle rivolte contro il Fondo Monetario Internatzionale (FMI) e dalle rivolte del pane degli anni ’80 e che in seguito ha preso forma nelle proteste no-global. L’agenda della globalizzazione guidata dagli Stati Uniti ha prodotto nuove contraddizioni che smentiscono la tesi della “fine della politica”.
Il rapporto Global Economic Prospects della Banca Mondiale (gennaio 2023) prevede che, alla fine del 2024, in 92 dei Paesi più poveri del mondo il prodotto interno lordo (PIL) sarà del 6% inferiore al livello previsto all’inizio della pandemia. Tra il 2020 e il 2024, si prevede che questi Paesi subiranno una perdita cumulativa di PIL pari a circa il 30% rispetto al 2019. Con l’inasprimento delle politiche monetarie da parte delle banche centrali dei Paesi più ricchi, i capitali previsti agli investimenti nei Paesi più poveri si stanno esaurendo e il costo dei debiti già detenuti sta aumentando. Il debito totale di questi Paesi poveri, osserva la Banca Mondiale, “è ai massimi da 50 anni”. Circa un Paese su cinque è “di fatto escluso dai mercati globali del debito”, rispetto a uno su quindici nel 2019. Tutti questi Paesi – eccezione fatta per la Cina – “hanno subito una contrazione particolarmente forte degli investimenti, superiore all’8% durante la pandemia, cioè un calo più profondo di quello registrato nel 2009, nel pieno della Grande Recessione”. Lo studio stima che nel 2024 gli investimenti aggregati in questi Paesi saranno inferiori dell’8% rispetto a quanto previsto nel 2020. Di fronte a questa realtà, la Banca Mondiale offre la seguente prognosi: “Il rallentamento degli investimenti indebolisce il tasso di crescita potenziale, riducendo la capacità delle economie di aumentare i redditi mediani, promuovere la prosperità condivisa e ripagare i debiti”. In altre parole, i Paesi più poveri scivoleranno sempre più in una crisi del debito e in una condizione di disagio sociale permanente.
Il 14 ottobre 1793 sulle barricate di Parigi Pierre Gaspard Chaumette – presidente della Comune di Parigi che cadde proprio sotto quella ghigliottina che lui stesso aveva utilizzato contro tante altre persone – citò queste belle parole di Jean-Jacques Rousseau: “Quando il popolo non avrà più da mangiare, allora mangerà i ricchi”.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della terza newsletter (2023) di Tricontinental: Institute for Social Research.