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SE NON VUOI AFFRONTARE L’OPPRESSIONE, IL TUO RUOLO DA INTELLETTUALE È INTUILE

Davanti alla tomba di Berta Isabel Cáceres Flores (1971-2016) a La Esperanza, in Honduras, dove è nata e morta, ho osservato una farfalla gialla svolazzare intorno a un cespuglio di bougainvillea. Volava indifferente, passando da una tomba all’altra nel silenzioso cimitero. Accanto alla tomba di Berta c’è quella di suo fratello, Carlos Alberto López Flores (1958-2004), un comunista che ha studiato all’Università Patrice Lumumba di Mosca e che ha avuto un’influenza fondamentale sul pensiero della sorella minore. L’altro lato della tomba di Berta rimane vuoto. Attende il corpo della madre di Carlos e Berta, María Austra Bertha Flores López – conosciuta come Mamá Berta – che ha seppellito due dei suoi figli. La farfalla gialla volteggiava sopra la tomba di Berta, dove c’erano fiori freschi lasciati dai visitatori che, come noi, erano venuti a rendere omaggio a questa leggendaria combattente uccisa per aver difeso i diritti del popolo Lenca dell’Honduras e la lotta globale per la giustizia sociale.

Sono stato in tombe e monumenti commemorativi come questo in tutto il mondo: al memoriale per Lindokuhle Mnguni (1994-2022), il giovane presidente della Comune di eKhenana e leader del movimento degli abitanti delle baraccopoli Abahlali baseMjondolo, assassinato nella sua casa di Durban, in Sudafrica, e che scriveva regolarmente risposte a queste newsletter; al memoriale di Gauri Lankesh (1962-2017), uccisa davanti alla sua porta a Bengaluru, in India, da teppisti della brigata di estrema destra Hindutva per il suo coraggioso lavoro di giornalista di coscienza; e alla tomba di Chokri Belaïd (1964-2013) nel cimitero di Jellaz a Tunisi, dove è stato assassinato fuori dalla sua casa proprio nel momento in cui, in qualità di leader sindacale, stava per spingere verso un governo laico in Tunisia. Ci sono tombe e memoriali di anni precedenti che mi richiamano: la tomba di Víctor Jara (1932-1973), torturato e assassinato dai teppisti di Pinochet dopo il colpo di Stato, nel Cementerio General di Recoleta, vicino alla mia casa a Santiago del Cile; lo studio di Mahdi Amel (1936-1987), che sua moglie Evelyne Brun Hamdan (1937-2020) ha conservato proprio come lui lo aveva lasciato quando scese a prendere un paio di pantaloni dalla lavanderia e fu assassinato per le sue critiche marxiste al settarismo religioso; e il memoriale di Chris Hani (1942-1993), il grande comunista sudafricano, assassinato proprio quando il Sudafrica iniziava la sua transizione dall’apartheid e proprio quando lui, voce della classe operaia del suo Paese, avrebbe portato una sensibilità proletaria al nuovo governo.

Perché queste persone sono state uccise? Qual era il loro crimine? Ognuno di loro credeva, in modi diversi, nella necessità di ampliare le possibilità di dignità umana nel mondo. Per Manifiesto – la sua ultima canzone, pubblicata dopo la sua morte dalla moglie Joan Jara (1927-2023) – Víctor scrisse con malinconia che deriva dalla consapevolezza di quanto sia difficile costruire il socialismo attraverso le gerarchie del capitalismo e la violenza che le élite useranno per mantenere il loro potere:

La chitarra di un lavoratore,
con il profumo della primavera.
Non è la chitarra di un uomo ricco,
né nulla di simile.
La mia canzone viene dai ponteggi,
per raggiungere le stelle.

Nessuna di queste persone desiderava il male per il mondo. Berta ha lottato per garantire il diritto delle persone comuni di decidere come mobilitare le proprie risorse per il proprio progresso; Lindokuhle ha lottato per i diritti della classe operaia sudafricana di vivere in una casa dignitosa e di controllare il proprio destino; e Gauri ha lottato per il diritto del popolo indiano di ragionare e di immergersi nella verità.

Gli uomini armati che li hanno uccisi lo hanno fatto per denaro. Molti erano killer professionisti, ingranaggi di una vasta macchina di profitto e morte. Spesso sono i killer a essere catturati durante le indagini, accusati e incarcerati. Ma le persone che mettono la pistola nelle loro mani e puntano la canna contro coloro che sono destinati a morire sono spesso invisibili e potenti – e non vengono accusati. Hanno le mani pulite, nessuna traccia di polvere da sparo sulle dita, nessun sangue sulle scarpe. Chi ha ucciso Berta? Gli uomini che sono stati arrestati e accusati o figure più pericolose, proprietari terrieri i cui piani per ottenere maggiori profitti negli altipiani di Lenca sono stati interrotti da Berta e dal Consiglio Civico delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras (COPINH)? Gli assassini di Belaïd potrebbero provenire da quartieri poveri di Tunisi come Ettadhamen, ma i veri assassini hanno ordito i loro complotti nelle lussuose ville di Les Berges du Lac, come abbiamo scritto in un dossier pubblicato in collaborazione con COPINH.

Un anno prima che fosse ucciso, ho incontrato Chokri Belaïd a Tunisi, dove mi ha intrattenuto con racconti della lotta per rovesciare il governo di Zine El Abidine Ben Ali. Parlava della lotta e del futuro in modo lirico, una sensibilità poetica che gli derivava dalla sua giovinezza e dai suoi giorni da studente a Baghdad. Nel corso della sua vita scrisse poesie sulla libertà, che furono raccolte dalla sua famiglia e pubblicate dopo la sua morte con il titolo Ash‘ār naqashathā al-rīḥ ʿalā abwāb Tūnis al-sabʿa (Poesie incise dal vento sulle sette porte di Tunisi). Una di queste poesie, probabilmente scritta al culmine della repressione politica alla fine degli anni ’80, si intitola lā taṭrudūnī (Non espellermi):

Non espellermi.
Io sono il tempo, un altare nel tuo tempo.
Io sono il dolore, o un antico inno.
Io sono una maledizione imminente.

Belaïd desiderava ardentemente la bellezza. La figlia di Berta – Bertha conosciuta come Bertita – mi racconta che sua madre amava la gioia (e anche un po’ la tequila). Gauri amava cucinare e apprezzava la musica rock ‘n’ roll. Lindokuhle era un lettore vorace, divorava Frantz Fanon e Steve Biko, oltre al Manifesto del Partito Comunista. Gli assassini e coloro che li hanno pagati non possono cancellare la profonda umanità di questi leader dei nostri movimenti. Li hanno uccisi perché i movimenti e i loro leader sono “una maledizione imminente”, che lottano per uscire da un mondo di profitto e violenza per costruire un mondo di dignità e umanità comune.

Davanti alla tomba di Berta, mentre il genocidio di Israele si intensifica a Gaza e viene dichiarata la carestia, penso a Bassel al-Araj (1984-2017), che ho incontrato a Ramallah alcuni anni prima che fosse ucciso dalla polizia israeliana in Cisgiordania. Bassel ha dedicato la sua mente brillante ai libri e alle idee, costruendo un corpus di pensiero sull’occupazione israeliana e la resistenza palestinese che lo ha reso, ai miei occhi, il Ghassan Kanafani (1936-1972) di questa generazione, il grande intellettuale comunista palestinese ucciso da un’autobomba israeliana insieme alla nipote diciassettenne Lamis Nijem a Beirut, in Libano. In un video musicale della band Maimas, con sede a Gaza, pubblicato dopo la morte di Bassel, egli appare alla fine parlando dell’importanza di essere un intellettuale impegnato (il cantante della band Haidar Eid ha scritto Banging on the Walls of the Tank: Dispatches from Gaza, appena pubblicato da Inkani Books di Johannesburg): “Se non vuoi essere impegnato”, dice Bassel, “se non vuoi affrontare l’oppressione, il tuo ruolo da intellettuale è inutile”. Quando è stato ucciso, aveva due libri accanto a sé: uno del marxista italiano Antonio Gramsci e l’altro del comunista libanese Mahdi Amel (“l’uomo con i sandali di fuoco”, come era conosciuto nel mondo arabo, un “uomo che avrebbe camminato sul fuoco” – al-rajul dhu al-ni‘āl al-nārīyah).

Davanti alla tomba di Berta, ho letto una parte de Le ceneri di Gramsci (1954) di Pier Paolo Pasolini, in cui l’autore visita la tomba di Gramsci e poi si allontana dal cimitero verso il mondo che sta oltre:

Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea

che al quartiere in penombra si
rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende

di una vita smaniosa che del roco
rotolio dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco

e assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami

caseggiati dove si consuma l’infido
ed espansivo dono dell’esistenza –
quella vita non è che un brivido;

corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza

– forse più lieta della vita – come
d’un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione

che per l’operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l’umile corruzione.

È un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi

eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce… Ma io, con il cuore cosciente

di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?

Ma la nostra storia, come sapeva Berta, non finisce così facilmente. Le nostre lotte sono vitali e necessarie e, come sapeva Bassel, contagiose.

Con affetto,
Vijay

*Traduzione della trentottesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.

Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.

Chi è Vijay Prashad?

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