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L’ambiente “resiliente” di Draghi è il più grande piano di greenwashing della storia italiana

Draghi ha presentato in Parlamento il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), un documento di chiara impronta liberista che prevede una spesa di 235 miliardi di euro (in larga parte derivanti da prestiti), da qui al 2026, concordata con la grande industria e l’alta finanza del paese. Dal piano non emerge un cambiamento di rotta rispetto al sistema socio-economico dominante; si tratta semplicemente di una lista della spesa la cui ripartizione delle voci risente delle pressioni e delle richieste dei partiti politici che sostengono il governo (e che devono rispondere agli interessi dei loro grandi elettori).

Il Piano è articolato in 6 missioni; la cifra messa a disposizione per quella relativa a “rivoluzione verde e transizione ecologica” non raggiunge il 37% dei fondi complessivi (richiesto come quota minima dal Regolamento europeo) e manca una reale strategia di uscita dai combustibili fossili per il passaggio all’energia elettrica prodotta totalmente da fonti rinnovabili entro il 2050.

Si tratta quindi di uno strumento inadeguato per fare fronte alle criticità ambientali di un territorio come quello italiano spremuto dalla speculazione, fragile e devastato da incuria e abusivismo. Basti pensare che l’investimento per la biodiversità e la tutela dell’ambiente si ferma allo 0,5% del totale, cifra del tutto irrisoria soprattutto se paragonata a quella stanziata dagli altri paesi europei. Nel piano ci viene invece prospettato un paese molto “smart”, in cui la tecnologia e la digitalizzazione (l’investimento per la missione relativa è pari al 21% del totale), vengono presentate come panacea di ogni male.

Infatti nessun riferimento allo sviluppo dell’agricoltura ecologica e biologica o al superamento dell’allevamento intensivo (responsabile del 17% dei gas serra in Europa). Sono assenti misure specifiche per la riduzione della produzione di rifiuti e l’innovazione necessaria a ridurre il ricorso all’usa e getta, specialmente per la plastica (così come l’incentivo al riuso e l’abbandono di un modello gestionale incentrato sui grandi impianti), mancano misure specifiche per gli ecosistemi marini, di prioritaria importanza per combattere i cambiamenti climatici (il mare produce più del 50% dell’ossigeno che respiriamo e assorbe il 30% della CO2 prodotta)

In campo urbanistico ed edilizio nulla viene fatto se non una riconferma dei bonus per l’efficientamento energetico, generici quanto insufficienti piani di messa in sicurezza e riqualificazione dell’edilizia scolastica ed ospedaliera. Tutto ciò va letto alla luce delle enormi “semplificazioni” previste in materia di appalti pubblici, in cui esternalizzazioni di progettazioni e cantieri che permetteranno ancora di più di vedere gli enti e le aziende pubbliche come un vero e proprio bancomat per i grandi appaltatori privati e speculatori del cemento. Resta immutato anche l’approccio puramente emergenziale al dissesto idrogeologico. L’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha stimato che servano 26 miliardi di euro per gli interventi cosiddetti non strutturali orientati ad aggiornare e mettere a sistema le conoscenze, presidiare, monitorare e manutenere in modo efficace il territorio. Il PNNR ne stanzia 3,6 miliardi: meno di 1/6 del necessario.

Nulla cambia anche nell’approccio alle infrastrutture: mentre lo sviluppo di un trasporto locale sostenibile viene sostenuto da appena il 4,5% dei fondi del PNRR (lasciando quasi inalterato il monopolio dell’auto privata su strada), e quello ferroviario regionale complessivamente da poco più del 2%, l’alta velocità assorbe da sola più del 50% dell’investimento dedicato alle infrastrutture ferroviarie (di cui quasi la metà ancora destinata al nord Italia).

In pratica, la “resilienza” che viene chiesta al paese è solamente la trappola tesa da un sistema di potere che non vuole intervenire sulle cause della crisi quanto piuttosto sugli effetti, per rimanere all’interno di un processo di riforma capitalistica.

Le classi dirigenti non mettono assolutamente in discussione il dogma della crescita illimitata e incontrollata, indirizzando interventi, energie e risorse per cercare di mantenere in piedi il sistema di produzione e di organizzazione della società che è alla radice delle crisi in atto.

Noi rifiutiamo questa finta transizione ecologica che, unita al decreto semplificazioni, si sta trasformando nell’occasione per dare l’assedio finale al territorio italiano. Siamo convinti che una politica orientata alla tutela della salute e al benessere degli esseri umani e del pianeta dovrebbe investire su progetti capaci di trasformare strutturalmente l’economia, puntando su uno sviluppo realmente sostenibile e inclusivo.

 

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