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Algeria: è tempo di disobbedienza civile

Il movimento sociale in Algeria è al sesto mese di proteste contro il regime, che continua a ignorare le rivendicazioni delle piazze. Il movimento, attivo anche in piena pausa estiva, annuncia future azioni di disobbedienza civile.

Nonostante le vacanze estive e il caldo torrido, centinaia di migliaia di persone continuano a scendere in strada nelle città algerine per chiedere un cambiamento radicale del sistema politico. Il 9 agosto, il 25° venerdì di protesta, sono state contate manifestazioni in 45 città. Le strade si sono riempite anche il venerdì successivo. Il quotidiano algerino El Watan parla inoltre di una maturità politica del movimento sociale: In questo sesto mese di protesta le iniziative politiche per organizzare la transizione democratica sono in aumento. Tuttavia, il regime rimane inflessibile e il capo di stato maggiore Ahmed Gaïd Salah continua ad andare per la propria strada.

A fine luglio, Salah ha nominato Karim Younès, ex presidente del parlamento algerino, per organizzare un “dialogo nazionale” e risolvere la “crisi politica”. Younès, da parte sua, ha nominato sette personalità politiche per dare legittimità a questo dialogo, ma alcuni degli invitati si sono rifiutati di partecipare. E anche le piazze e le forze politiche democratiche e progressiste continuano a respingere le proposte di Salah e di Younès: con i vecchi rappresentanti del regime non è possibile organizzare una transizione democratica e sociale.

Nel frattempo, il movimento sociale ha fatto capire che dopo la “pausa estiva” le manifestazioni e le proteste saranno più radicali. “Rahou djay, rahou djay, el issyane el madani” (sta arrivando, sta arrivando la disobbedienza civile) è stato lo slogan principale durante le manifestazioni delle ultime tre settimane.

Per capire meglio le dinamiche politiche e sociali e la tenacia del movimento algerino, abbiamo parlato con Hakim Addad, attivista politico, cofondatore dell’organizzazione giovanile Rassemblement ActionS Jeunesse (RAJ) e membro del collettivo per il sostegno politico e la vigilanza del movimento del 22 febbraio, CSVM 22 février, un collettivo fondato da giovani manifestanti il giorno dopo le prime proteste con lo scopo di denunciare la repressione del regime e diffondere informazioni sulla situazione politica algerina. Nel frattempo, il collettivo ha raggiunto una dimensione internazionale e vi partecipano attivisti del movimento sia dall’Algeria che dalla Francia.

Le piazze

Com’è cambiata, nelle ultime settimane, la composizione del movimento sociale algerino? Come sono cambiate le rivendicazioni politiche e sociali?

Fin dall’inizio del movimento rivoluzionario del 22 febbraio, le sue rivendicazioni sono molto politiche: “No al 5° mandato. Cambio di sistema”. Con il passare dei mesi, le rivendicazioni sono diventate più radicali e precise, senza perdere però il loro carattere profondamente politico: “No allo Stato militare, sì a uno Stato civile”, slogan contro il capo di stato maggiore dell’esercito Gaïd Salah e “No alle elezioni presidenziali, sì all’assemblea costituente”. Queste richieste vengono portate in piazza ad ogni manifestazione. Le rivendicazioni e gli slogan sono quindi cambiati con l’evolversi della situazione politica generale, ma un punto fondamentale rimane invariato: “système dégage”, cioè “mandiamo il sistema a casa”.

Siamo al sesto mese di proteste, con manifestazioni quasi quotidiane, soprattutto il martedì (giorno degli studenti, anche durante le vacanze) e il venerdì. Anche con l’inizio del caldo torrido e durante il mese di digiuno (ramadan), milioni di persone hanno partecipato alle mobilitazioni. E nonostante l’aumento della repressione e gli arresti di manifestanti che portavano la bandiera berbera, la partecipazione è rimasta molto alta.

Donne, uomini, giovani e meno giovani continuano a manifestare in tutte le città algerine, cantando slogan e chiedendo al regime e ai suoi rappresentanti di andarsene. Rispetto al 22 febbraio siamo meno persone, ma le strade continuano a riempirsi con centinai di migliaia di persone e noi siamo più vivi che mai. Molti sono partiti in vacanze per stare insieme ai famigliari e recuperare forze, ma siamo fiduciosi che le mobilitazioni continueranno intensamente nelle prossime settimane. Durante i tre ultimi venerdì, i manifestanti di tutto il paese hanno cantato “Rahou jay jay rahou jay jay al issyaan al madani” (sta arrivando, sta arrivando la disobbedienza civile).

Le organizzazioni politiche

In questi ultimi mesi abbiamo letto molto sulla composizione sociale del movimento e sulle sue rivendicazioni. A che punto sta invece l’organizzazione politica di queste richieste? Come si possono caratterizzare le piattaforme che vogliono essere l’espressione politica delle piazze?

L’Algeria ha vissuto dieci anni di guerra civile che ha fatto 200.000 morti e vent’anni di regime repressivo di Bouteflika. Negli ultimi trent’anni abbiamo quindi vissuto una repressione quotidiana, divieti di manifestazioni politiche e divieti di creare nuove associazioni e nuovi partiti politici. Il regime ha criminalizzato quasi tutte le attività politiche, in particolare i giovani si sono allontanati dai partiti di ogni colore. Quindi dobbiamo essere onesti: Né i partiti né le organizzazioni della società civile sono stati in grado di strutturare il movimento sociale dal 22 febbraio.

Nonostante questa difficoltà, che pesa molto su di noi, i collettivi, i sindacati e le altre associazioni della società civile che sono nate o sono state rilanciate con il movimento attuale, svolgono un ruolo centrale. La maggior parte della cosiddetta società civile si è unita nel “Collettivo della società civile per una transizione democratica e pacifica”. Altre organizzazioni e i sindacati autonomi hanno creato un proprio coordinamento. Associazioni più vicine al regime si sono unite per formare ancora un altro coordinamento. Vi sono quindi iniziative diverse, ciascuna con la propria tabella di marcia e le proprie rivendicazioni, che vanno da un’assemblea costituente alle immediate elezioni presidenziali. Tuttavia, tutte queste iniziative sono convinte della necessità di un periodo di transizione.

Durante sei settimane, i coordinamenti si sono incontrati regolarmente, sempre con la convinzione di mettere gli interessi generali del movimento sociale al di sopra degli interessi politici e ideologici particolari. Alla fine siamo riusciti a organizzare, non senza difficoltà, una prima conferenza nazionale il 15 giugno. Più di sessanta associazioni, collettivi della società civile, sindacati autonomi con convinzioni politiche e ideologiche molto diverse si sono riuniti – una cosa mai vista dall’indipendenza dell’Algeria nel 1962! In quella riunione è stata adottata una tabella di marcia comune e abbiamo trovato convergenza sulla necessità di un periodo di transizione prima di tornare al voto. Ma il regime respinge questo periodo di transizione. Noi tutti stiamo usando questa posizione decisa comunemente come mezzo di pressione sul regime. Si può dunque parlare di successo: nonostante le differenze politiche e ideologiche, grazie alle e nelle mobilitazioni rimaniamo compatti nelle rivendicazioni di base e continuiamo a fare pressione sul regime.

Poi, il 26 giugno è stato organizzato un incontro dai partiti democratici e progressisti al quale anche noi in quanto “Collettivo della società civile” abbiamo partecipato. Si è creata una piattaforma molto progressista in cui si chiede un periodo di transizione, un’assemblea costituente, l’uguaglianza tra donne e uomini e molto altro ancora.

Altri partiti e personalità politiche si sono incontrati il 6 luglio. La loro piattaforma chiede elezioni presidenziali immediate, senza una chiara posizione su una fase di transizione. Essa corrisponde per molti aspetti alla tabella di marcia del regime. Noi del “Collettivo della società civile” ci siamo rifiutati di partecipare a questo incontro e visto la piattaforma che ne è uscita, ne siamo anche contenti.

Tutto ciò dimostra che le organizzazioni della società civile e i partiti politici sono entrati a fare formalmente parte del movimento sociale algerino, ognuno con i propri ritmi e le proprie tattiche. Altre iniziative sono in fase di preparazione. La “Conferenza per una transizione democratica” che si terrà il prossimo 30 agosto è particolarmente interessante, visto che unisce tutte le forze politiche e sociali democratiche e progressiste. È organizzata dalle organizzazioni democratiche e progressiste, la cui piattaforma è stata costituita il 26 giugno.

È fondamentale non lasciare, nelle proposte politiche per il futuro dell’Algeria, mano libera al regime. Dobbiamo continuare a intervenire nel dibattito politico come forze della società civile e fare proposte concrete per i prossimi passaggi politici, anche se in fine, solo il popolo deciderà, durante le manifestazioni del venerdì, quale soluzione accettare.

Il mondo del lavoro

Un momento fondamentale per il rafforzamento del movimento sociale e delle sue richieste è la capacità dei lavoratori organizzati di riconquistare la confederazione sindacale algerina UGTA – uno strumento necessario per condurre azioni di blocco del settore produttivo algerino. In che modo il movimento sociale del 22 febbraio ha influito sul movimento operaio algerino?

Il movimento sindacale algerino esiste da circa trent’anni, soprattutto attraverso i sindacati autonomi. Sono questi sindacati autonomi che conducono lotte per i vari settori professionali. E nonostante la repressione del regime, sono riusciti ad organizzare i lavoratori.

I lavoratori e gli attivisti sindacali dell’UGTA Union générale des travailleurs algériens, invece, lottano per la democratizzazione del sindacato, ma la battaglia non è stata ancora vinta. Un motivo non trascurabile è che il regime non rinuncerà così facilmente al sindacato visto che rappresenta circa un milione di lavoratori che possono bloccare l’intero settore produttivo del paese. Finora è stato cacciato il segretario generale Sidi Said, che per decenni è stato alla guida del sindacato e strettamente legato all’ex presidente Bouteflika. Si tratta di un’importante vittoria, ma la lotta rimane dura e la strada per la liberazione dell’UGTA piena di trappole. Ma restiamo fiduciosi: libereremo l’Algeria e con lei l’UGTA!

Il regime

La repressione è aumentata, la polizia ha aumentato la presenza in piazza e anche gli arresti di semplici manifestanti, attivisti, giornalisti sono aumentati. Uno scenario sudanese è possibile anche in Algeria?

Questo regime è nato dalla violenza e il settore socio-politico è sempre stato gestito con violenza. Si tratta di molto di più di una semplice violenza fisica esercitata sulla società e sui suoi rappresentanti politici e mediatici: Ogni giorno viviamo intimidazioni, ricatti, pressioni di ogni tipo. Quindi sappiamo con quale regime ci stiamo confrontando. Ma in un punto il regime rimane impotente, cioè nel carattere pacifico del nostro movimento (silmiya).

Fin dai primi mesi la repressione è stata usata contro il processo rivoluzionario. La polizia, che esegue direttamente gli ordini del regime, ha rapidamente iniziato a chiudere gli spazi pubblici, cioè quegli spazi occupati dai manifestanti, dalle associazioni e dalle organizzazioni politiche sin dall’inizio del movimento il 22 febbraio, per restituirli al popolo. Così è stato vietato il forum di dibattito dell’organizzazione studentesca e giovanile RAJ, quello degli artisti e quello del think thank Nabni, un collettivo fondato alla fine del 2010 e che già allora lavorava sulla questione della transizione democratica e del ricambio generazionale in Algeria. Anche il tunnel des facultés di Algeri, occupato dagli studenti durante le manifestazioni, è stato chiuso. Si tratta di un posto simbolico della nostra rivoluzione, così come la Place de la Grande Poste. Per reagire a questa repressione, con alcuni compagni abbiamo lanciato un appello a riunirci, ogni giorno alle ore 17, per difendere le nostre “manifestazioni della libertà”. Nel corso del tempo, siamo diventati sempre più numerosi, ma anche la polizia.

Dopo cinque settimane di resistenza e repressione quotidiana, dieci compagni, tra cui io e quattro donne, sono stati arrestati e portati in una stazione di polizia alla periferia di Algeri. Le forze di polizia hanno cercato di intimidirci, le donne sono state soggette di umiliazioni fisiche. Infine, ci hanno tenuto in custodia cautelare per otto ore prima rilasciarci. Questo esempio dimostra che il regime vuole distruggere le nostre manifestazioni per la libertà attraverso il suo braccio armato. Da allora, gli arresti si sono moltiplicati. Oggi contiamo più di ottanta prigionieri politici e questo numero potrebbe facilmente aumentare. In più, nelle ultime settimane Algeri è stata praticamente occupata dalla polizia, così che è diventato quasi impossibile per i manifestanti entrare al centro città.

Quindi quello che è successo a Khartoum ad inizio giugno è possibile anche ad Algeri, sì, o attraverso le forze armate ufficiali del regime o attraverso gruppi che sfuggono al “controllo statale”. Questi “legittimerebbero” l’intervento della polizia o, nel peggiore dei casi, anche dell’esercito. Il popolo algerino si ricorda ancora perfettamente delle manifestazioni e delle occupazioni dell’ottobre 1988 che hanno portato al crollo del sistema di partito unico algerino. In quell’occasione, il capo di stato maggiore ha ordinato all’esercito di sparare ai manifestanti. In pochi giorni sono morte oltre 500 persone, per lo più giovani manifestanti. Il popolo algerino si ricorda anche perfettamente dei 128 giovani uccisi nel 2001 dalla gendarmeria nazionale, un’unità dell’esercito, durante il movimento di protesta sociale in Cabilia. La storia ci insegna che un intervento violento da parte dell’esercito è possibile. Ma allo stesso tempo sono convinto che il regime usi prima altri mezzi violenti, non perché non voglia usare mezzi estremi, ma perché nell’epoca dei cellulari e dei social le notizie di questo genere arrivano rapidamente fuori dai confini algerini e il regime non vuole che il mondo veda dei “vecchietti morenti” sparare ad un movimento pacifico, giovane, bello e sorridente.

Poi c’è anche la pressione dall’esterno, dal Medio Oriente, dall’Europa (in particolare dalla Francia), dagli Stati Uniti. Ogni potenza politica ha i propri interessi specifici in Algeria, paese che può fungere da apripista per l’intero continente africano. Ma anche il silenzio complice di quei paesi che si presentano come roccaforti della democrazia e che vogliono insegnare al mondo i diritti umani è un posizionamento. Facciamo appello all’opinione pubblica di questi paesi affinché anche loro non diventino complici dei loro governi.

Come detto, la forza della nostra rivoluzione è il suo carattere pacifista. Questa è la nostra arma migliore e continueremo ad usarla. Come scrisse il poeta cileno Pablo Neruda: “Possono tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera“.

Il futuro

“Vinceremo la Coppa e la nostra libertà” è stato uno slogan durante la Coppa d’Africa svoltasi in Egitto. La squadra di calcio algerina ha vinto la coppa. Quali sono ora i prossimi passi per vincere anche la libertà?

Dal 22 febbraio siamo riusciti a conquistare gran parte della nostra libertà. La storia non torna indietro e neanche noi lo faremo. Ora dobbiamo affermare questa libertà. Oltre alle splendide manifestazioni, le iniziative della società civile e dei partiti politici e le prossime conferenze saranno centrali. Saranno inoltre necessarie, a partire da settembre, ulteriori azioni di disobbedienza civile. Il movimento studentesco può spostare l’equilibrio a nostro favore, ma anche la lotta per la riconquista del sindacato UGTA da parte dei lavoratori è fondamentale. Dobbiamo mirare a scioperi regolari o addirittura a uno sciopero generale. Nel frattempo, il popolo continua a manifestare pacificamente e a organizzarsi.

Prima del 22 febbraio non esistevamo; da allora il mondo ci guarda, il regime ci teme e noi abbiamo scoperto la nostra forza. Una cosa è chiara: il tempo e la giustezza sono dalla nostra parte. E poi abbiamo sempre la nostra rivoluzione pacifica. È qui che risiede gran parte del nostro successo, ed è attraverso questa che ritroviamo la nostra libertà e la nostra dignità e – senza esagerate pretese – quella di tutti i popoli oppressi.

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