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21 GIUGNO: IL VOLANTONE DI DISARMIAMOLI!

DISARMIAMOLI

Il 9 giugno Mark Rutte, Segretario Generale della NATO, è al centro studi britannico Chatham House. Ride di gran gusto. Lo fa anche quando afferma che “se non aumentiamo la spesa in Difesa al 5% potremo conservare la nostra Sanità e le nostre pensioni, ma sarà meglio che impariamo a parlare russo. Questa è la conseguenza. La verità può rendere nervose le persone, ma bisogna renderle nervose”.

Ride mentre ribadisce ciò che ormai sappiamo tutte e tutti: al summit de L’Aia del 24 e 25 giugno, la NATO “chiederà” ai 32 Paesi membri un impegno senza precedenti: il 5% del PIL in armi e Difesa, come vuole il “pacifista” Trump.
E tutti i 32 Governi scatteranno sugli attenti e obbediranno. Tutti: dai “progressisti” all’ultradestra, passando per l’estremo centro liberale.
Governo Meloni compreso. Crosetto ha già fatto sapere che “è ragionevole fissare il traguardo al 2035, con un aumento massimo dello 0,2% l’anno” perché “il nostro compito è rispettare gli impegni NATO e gli assetti richiesti” per “costruire un futuro sistema di difesa europea, basato sugli stessi criteri e principi della NATO” (Corsera, 15 giugno 2025).

“Ce lo chiede la NATO” è già oggi il nuovo mantra.
Ma che significa raggiungere il 5% del PIL in spese militari? Concretamente una cifra tra i 44 e i 77 miliardi di euro in più all’anno rispetto a quanto l’Italia spende già oggi, fino a raggiungere una cifra che arriva quasi a pareggiare la spesa sanitaria.
Hanno eliminato il reddito di cittadinanza perché 7 miliardi per sostenere disoccupati e lavoratori poveri era troppo; nelle scuole la carta igienica la devono portare docenti e famiglie; gli stipendi del personale sanitario non si possono alzare (così che c’è oggi una fuga all’estero), perché bisogna tenere in conto il pareggio di bilancio; insomma, mai un euro per i bisogni di milioni di persone, però ora che c’è da foraggiare il complesso militare-industriale, Leonardo in primis, i soldi escono fuori a volontà.
È per la nostra sicurezza, si capisce. Quando avremo bisogno di una visita e ci sarà una lista d’attesa che la prima data possibile è dopo un anno e mezzo, ci rallegreremo perché vabbè che non avremo la TAC, ma vuoi mettere un bel tank Leopard proprio lì davanti al pronto soccorso (magari chiuso)?

Serve riarmarsi, ci ripetono. Perché siamo in pericolo. Per mano della Russia e della Cina, non certo di un Paese che clandestinamente ha sviluppato l’arma atomica, senza aderire al TNP (Trattato di Non Proliferazione nucleare) – Israele; di un Paese che prosegue nel genocidio a Gaza; di un Paese che ha avviato un attacco illegale e criminale contro l’Iran.

Il 5% del PIL in armi che imporrà la NATO, gli 800 miliardi del ReArm EU di von der Leyen, i propositi di “difesa comune europea” dei progressisti di casa nostra, vanno nella stessa direzione: “disegnare un modello di relazioni che ci permetta di mantenere questa posizione di privilegio [50% della ricchezza mondiale, ma solo il 6,3% della popolazione] senza pregiudicare la nostra sicurezza”. Sono le parole che George Kennan mise nero su bianco nel 1948 e che spiegano perché gli USA inventarono la creatura NATO.

Incontrano però un ostacolo. La propaganda bellicista i popoli se la bevono sempre meno. Il rifiuto del riarmo e del principale attore che lo impone, la NATO; la convinzione che Israele vada fermato e che i soldi vadano spesi per i bisogni popolari, non per riempire i portafogli di Leonardo & Co. Deve però uscire dal privato o dal virtuale di un reel instagram e darsi le gambe per diventare movimento sociale e politico antimilitarista.
“Disarmiamoli!” è parola d’ordine che deve farsi battaglia delle idee e pratica quotidiana: non siamo né soli né impotenti, come vorrebbero “loro”; al contrario, come ci hanno dimostrato i portuali di Marsiglia, Tangeri, Genova che, superando le barriere nazionali e linguistiche hanno coordinato azioni di embargo militare dal basso contro carichi di armi pronti a rifornire il genocidio israeliano.
Questa è la strada: nominare con chiarezza i nemici, senza politicismi, dare battaglia, costruire solidarietà concreta, farsi movimento di massa.

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5% PER LA GUERRA, 0% PER CHI LAVORA: LA SPESA MILITARE ITALIANA AL SERVIZIO DELLA NATO

Nel 2025 l’Italia spenderà 31,4 miliardi di euro in spese militari. Un’enormità. Significa quasi 86 milioni al giorno, oltre 1.000 euro al secondo. Un incremento del 12% rispetto al 2024, e una crescita del 61% in dieci anni.

Questa valanga di soldi pubblici non finisce solo nei “classici” capitoli della Difesa. È distribuita anche su ministeri come MIMIT, MEF e MIT, a conferma che la militarizzazione non è un dettaglio, ma una scelta strutturale. È così che l’Italia si prepara alla guerra e smantella il presente, mentre interi settori della sanità, della scuola e del welfare vengono abbandonati.

Ma cosa compriamo con questi miliardi? Tra i programmi principali figurano: i caccia F-35 e Typhoon, i nuovi obici semoventi Rch155, i blindati Centauro 2 e i carri leggeri Lynx, i sommergibili U-212 NFS, e molto altro ancora.

E in questo carrello della spesa la dipendenza dai fornitori extra-UE, in particolare dagli Stati Uniti, è preponderante. Secondo i dati del report Europa a mano armata (2025), «in termini aggregati, gli Stati Uniti rappresentano da soli il 63% dei piani di approvvigionamento militare dei paesi UE».

Eppure, la propaganda continua a presentare questa spesa come “investimento per il lavoro”. I numeri smentiscono. Secondo i dati raccolti dallo stesso report, su una spesa di 1.000 milioni di euro per l’acquisto di armi, l’impatto occupazionale in Italia è di 3.000 posti aggiuntivi. Un dato risibile se lo paragoniamo a quello creato dagli stessi investimenti in istruzione, salute e ambiente, che generano un impatto da due a quattro volte superiore.

A guidare questa deriva non c’è solo l’interesse industriale o l’opportunismo politico: c’è la pressione costante della NATO. L’Alleanza Atlantica, nata per garantire la “difesa collettiva”, è oggi uno strumento di espansione militare al servizio delle strategie statunitensi. L’obiettivo del 2% del PIL in spese militari, che verrà presto superato dal folle 5%, è diventato un dogma imposto ai Paesi membri, senza alcun confronto democratico. L’Italia (di Meloni, ma anche quella di Renzi, Conte e Draghi) ubbidisce, rinunciando a qualsiasi autonomia politica, trasformandosi in un avamposto bellico in una guerra che non ci appartiene, ma che paghiamo cara.

In altre parole, lo Stato butta miliardi in armamenti mentre milioni di persone faticano ad accedere a cure, trasporti, alloggi. Si tagliano i servizi essenziali, ma si acquistano caccia e sottomarini. Si impoveriscono i territori, ma si finanziano industrie di morte. E tutto questo in ossequio a una strategia europea e atlantica che ha scelto il riarmo, la deterrenza, la guerra come linguaggio della politica.

Questa economia della guerra si può e si deve fermare. Serve una riconversione civile ed ecologica dell’industria militare, serve una mobilitazione collettiva che dica: il nostro futuro vale più delle vostre armi.

ITALIA E ISRAELE: UN AMORE A PROVA DI BOMBA

Mentre i popoli del mondo invocano un cessate il fuoco immediato a Gaza, l’Italia, secondo quanto emerge dalle fonti ufficiali (SIPRI, Istat, relazioni governative) continua a esportare armamenti e tecnologie militari verso Israele.

Tra il 2019 e il 2023, l’Italia ha esportato verso Israele armi per un valore di 26,7 milioni di dollari (circa 23,8 milioni di euro), inclusi 12 elicotteri leggeri AW119 Koala e 4 cannoni navali Super Rapid da 76mm, entrambi prodotti dalla Leonardo Spa. Inoltre, la cooperazione nel programma dei caccia F-35 ha visto l’invio di componenti italiane destinate ai velivoli israeliani.

Nel 2024, l’Italia ha esportato in Israele “armi e munizioni” per circa 5,8 milioni di euro, con solo l’11% di queste esportazioni classificato come “armi non letali” e altre categorie.

Particolarmente rilevante è il capitolo delle tecnologie per “navigazione aerea e spaziale”, che comprende aerei, droni e radar per un valore di 34 milioni di euro. Inoltre, l’Italia ha esportato 2,7 milioni di euro in computer industriali e dispositivi per l’elaborazione delle informazioni, strumenti fondamentali per le infrastrutture militari e l’Intelligenza Artificiale.

Nonostante l’evidente coinvolgimento in un contesto di conflitto armato, il Governo italiano continua a rivendicare la legalità delle esportazioni militari, basandosi su deroghe della normativa vigente. Tuttavia, la Legge 185/1990 vieta l’invio di armamenti a Paesi coinvolti in conflitti armati, salvo specifici accordi di sicurezza nazionale.

Emergono inoltre forniture secretate di cui Parlamento e popolo non sanno nulla. Noi scendiamo in piazza per chiedere l’immediata rescissione di tutti gli accordi di cooperazione e le forniture militari con Israele.

Se vogliamo lottare concretamente contro il genocidio, se vogliamo salvare ciò che resta dei nostri ospedali e scuole, dobbiamo fermare il governo e la sua macchina di morte. Ora, non un minuto più tardi.

PER UN’ALLEANZA INTERNAZIONALE CONTRO LA NATO E IL RIARMO

Non appena insediatosi, Trump ha chiesto un maggiore sforzo dai Paesi europei per finanziare la NATO: non più il 2% chiesto nel 2022 a Madrid, bensì il 5% del PIL da dedicare alle spese militari.

Ciò si aggiunge a delle cifre già esorbitanti: nel 2022 gli USA hanno speso ben 1537 miliardi di dollari per il proprio esercito (6% del PIL), che corrisponde a più del 40% degli investimenti militari globali. In Europa tra il 2020 e il 2024, i Paesi dell’Est le hanno aumentate da poco più di 80 miliardi (18% delle spese continentali) a 225 miliardi (33%). La Germania invece nel 2024 le ha aumentate del 28% raggiungendo 88.5 miliardi di dollari in un anno e diventando il Paese con la spesa militare più alta dell’Europa e il quarto al mondo.

Dietro a questa folle corsa agli armamenti ci sono perlopiù due ragioni. Da un lato le pressioni degli USA sul suo junior partner – l’Europa – per assumersi le sue “responsabilità di difesa” e poter mettere il focus sull’Indo-Pacifico dove gli USA ambiscono a limitare le capacità espansive della Cina per stabilizzare la propria egemonia globale. Dall’altro lato, invece, lo sviluppo di “un’economia permanente degli armamenti” viene presentata come risposta alla crisi economica. La storia però insegna: un’economia di guerra produce distruzione, non stabilità economica e sicurezza!

Pochi mesi dopo l’annuncio di Trump, il segretario generale della NATO Mark Rutte ha affermato: “Suppongo che all’Aia ci metteremo d’accordo sull’aumento delle spese per la difesa del 5%”. Gli Stati Uniti ordinano, l’Europa esegue! Dal 24 al 26 giugno durante il vertice della NATO all’Aia infatti i Paesi membri firmeranno un nuovo accordo che alimenterà la corsa agli armamenti.

È quindi più importante che mai costruire alleanze internazionali contro i piani di riarmo e contro le guerre della NATO. Già nelle prossime settimane e nei prossimi mesi Potere al Popolo! sarà impegnato a rafforzare questo lavoro: il 22 giugno all’Aia1 contro il vertice della NATO, il 23 e 24 giugno a Bruxelles2 per il Forum Internazionale per la Pace e poi ancora ad ottobre a Parigi3 nella chiamata internazionale “Non un centesimo, non un’arma, non una vita per la guerra”.

LA LOTTA DEI LAVORATORI PORTUALI CONTRO IL TRAFFICO DI ARMI E IL GENOCIDIO

Le guerre moderne dipendono da una complessa rete logistica per rifornire i fronti di armi e materiale bellico. Sabotare la produzione militare e opporsi alla complicità dell’Italia è un impegno urgente. Porti come Genova e Trieste sono snodi cruciali per il transito di armamenti. Oggi, la tradizione di resistenza dei portuali continua con iniziative come quelle del CALP di Genova (che aderisce all’Unione Sindacale di Base) o del Gap di Livorno, che, rifiutandosi di caricare armi sulle navi, inceppano la catena logistica della guerra.

Un esempio recente è la mobilitazione contro la portacontainer “Contship ERA”, di proprietà dell’israeliana ZIM, rimasta vuota grazie ai portuali di Marsiglia e poi monitorata a Genova, Salerno e Scilla. Queste azioni, che saldano il protagonismo dei lavoratori e degli attivisti no war, indicano una pratica concreta da perseguire. È fondamentale rafforzare questo movimento, smascherando il ruolo delle autorità italiane e dei nostri porti come hub bellici.

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