Partiamo dalle uniche due domande che interessano a chi si è impegnato, ha creduto o semplicemente guardato a Potere al Popolo in questa tornata elettorale.
E’ stato un risultato soddisfacente quello ottenuto da PaP? Vale la pena continuare con questo percorso?
E noi rispondiamo subito in premessa senza giri di parole:
No non è stato un risultato soddisfacente. Assolutamente si bisogna continuare e allargare questo percorso.
Schematicamente le motivazioni per queste valutazioni per noi sono:
– La crisi non ha risposte credibili e tutti i governi di centrodestra, centrosinistra e quelli di unità nazionale hanno deluso le aspettative della stragrande maggioranza della popolazione e incattivito in particolare i settori sociali che ne hanno pagato di più le conseguenze. Renzi e il PD, Berlusconi e FI, i “tecnici” sono tutti considerati (a ragione) responsabili e sono stati puniti. In clima di “rivoluzione passiva” e di livelli di coscienza politica bassissimi, i settori sociali abbandonati dai propri riferimenti e referenti politici danno sostegno (a torto) alle ipotesi più populiste e reazionarie. Agiscono per negazione, per “vendetta”, e si affidano a risposte semplicistiche, visto che le altre non hanno migliorato le loro condizioni, colpendo i responsabili in alto e scagliandosi contro il più debole “reo” di contendergli le briciole rimaste del welfare in via di progressiva estinzione. E’ la guerra del basso contro l’alto e del penultimo contro l’ultimo. Questo vento non contrasta coi poteri forti e vediamo che Confindustria e sistema speculativo si attrezzano per continuare le proprie controriforme in regime di questa guerra tra poveri che non li sfavorisce certo. Inoltre il sistema politico-elettorale e la balcanizzazione del consenso (nessuno da solo ha i numeri per governare) determina lo spostamento “moderato” degli unici vincitori delle elezioni (la Lega e il M5S) che solleticano gli istinti più beceri davanti alle tv e nelle piazze e poi mandano messaggi rassicuranti di affidabilità ai poteri forti, a parte delle altre forze politiche e alle istituzioni italiane e non.
– Il clima generale in questo contesto non è favorevole a chiunque si presenti a sinistra in questo paese e infatti il crollo ha coinvolto tutti quelli che si collocavano in questo spazio anche se a vario titolo (e molti “abusivamente”). Il centrosinistra ha governato nella piena logica neoliberista dell’austerity ed ha poi sostenuto tutti i governi di unità nazionale con settori del centrodestra per continuare queste politiche di massacro sociale quando il consenso non era sufficiente a governare. Un fenomeno non solo italiano tra l’altro. La sinistra cosiddetta “radicale” per 12 anni fino al 2008 ha sostenuto questa opzione politica (il centrosinistra) anche senza Renzi e negli anni successivi si è divisa tra chi ha continuato a inseguire un “nuovo” centrosinistra e chi è rimasto attaccato alla gonnellina della sinistra del centrosinistra contrapponendosi solo alla variante renziana del PD. Questa subalternità di tutti i processi (falliti e fallimentari) di ricostruzione di un “nuovo soggetto della sinistra” si è manifestata e affacciata in molte alleanze locali, nel profilo dell’elezioni del 2013 (con Ingroia a inseguire, per “sfidarlo”, il PD di Bersani che poi ha sostenuto Monti con Casini e Alfano), nel dibattito dell’Altra Europa sulle terre di mezzo navigate da SEL tra PSE e GUE e anche nel Brancaccio che sin da subito ha cercato il dialogo con la sinistra PD. Il Brancaccio, infatti, non è fallito per il “tradimento” di SI o di Falcone e Montanari che alla chetichella si erano messi già a tavolino con MDP prima della famosa assemblea nazionale poi cancellata. La traiettoria del Brancaccio è stata chiara invece sin dalla prima assemblea con la cacciata proprio dei ragazzi e ragazze dell’ex-Opg per difendere D’Alema & co. che è stata la dimostrazione plastica della linea di demarcazione tra la riproposizione di una sinistra subalterna interessata a ricostruire scatole e soggetti per ceti politici trombati e una sinistra di alternativa interessata a ricostruire i contenuti di una nuova connessione sentimentale con le classi subalterne. E’ su questa linea di rottura che si è determinata una crepa e nel vuoto della spaccatura bene ha fatto ex-Opg a lanciare la proposta di Potere al Popolo. Quindi, in questo senso, questo è un inizio importante e pieno di potenzialità anche se cancellare 20 anni di subalternità politica e culturale non sarà semplice né indolore. L’importante è non tornare a guardare indietro ma andare avanti.
– Il risultato di Potere al Popolo è stato al di sotto delle aspettative e può essere considerato un importante punto di partenza di un percorso tutto in salita. C’è stato sicuramente un oscuramento mediatico che ha influito sulla possibilità di farsi conoscere da larghi strati della popolazione. Dai minutaggi, fascia oraria e tipi di trasmissione con determinati livelli di “share” in cui la portavoce di PaP è apparsa in TV si potrebbe evincere che più della metà della popolazione italiana non l’ha mai ascoltata o vista direttamente. E in fase di bassi livelli di coscienza e passivizzazione di massa le risposte più semplici(stiche) hanno vita facile e i mezzi di comunicazione come TV e giornali (passivi appunto) sono quelli più adatti alla formazione del consenso, mentre i social arrivano a coinvolgere solo la parte più attiva e informata (e non sempre per questo la più sensata). Quindi poco meno di 400.000 voti significa non aver intercettato settori dall’astensione ma del voto militante e anche di quello che gli ruota strettamente più attorno in termini di attivismo e coscienze più critiche. Inoltre leggendo alcuni flussi sui voti, ad es. dell’Istituto Cattaneo e Youtrend, si evincerebbe che PaP non buca tra i più giovani visto che nella fascia d’età tra i 18 e 24 anni solo lo 0,3% ci avrebbe votato a fronte di quasi il 60% dei voti andati a M5S, Lega e Casapound (rispettivamente col 32,5%, 21,2% e 3,8% delle preferenze) che si riflette anche nello 0,3% raccolto da PaP nella categoria “studenti”. E questo è un bel problema su cui lavorare. Mentre PaP, va detto, è andato sopra la media tra i giovani in età universitaria o di lavori iperprecari (25-34 anni) ma con un consenso comunque solo dell’1,7% così come è andato sopra la media in città dove ci sono ancora insediamenti storici rilevanti e dove ci sono presidi di forze che hanno allargato il campo di ciascuno (come a Napoli, Roma, Firenze…).
– Tralasciamo eventuali errori di comunicazione e di formazione di un programma comprensibile e sintetizzabile in 2-3 punti forti e che rimangono impressi ai più, perché questo è del tutto normale in un processo avviato di corsa in 3 mesi, senza professionisti della politica-immagine ma solo di quella del conflitto (che è l’investimento più importante per il futuro) e con una struttura di direzione improvvisata e da intergruppi per poter intanto partire e gestire le elezioni. Sarebbe ingeneroso puntare il dito su questi aspetti e chi è in buona fede, e ha a cuore la prosecuzione di un progetto politico per l’alternativa di sistema, gli darà il giusto peso. Aver però dato speranze e lavoro politico comune a un largo strato militante e attivo è sicuramente un’ottima premessa se non si guarda alle elezioni come momento di arrivo o necessità unica per un progetto politico. Non abbiamo intercettato i larghi strati disillusi di non votanti (il 73% dei votanti è una percentuale pressoché identica alle politiche del 2013 e superiore alle altre tornate amministrative successive), ma abbiamo rimesso in campo una fetta di quei militanti non appartenenti a nessuna organizzazione e che non si sarebbero attivati o addirittura erano rifluiti nel privato per assenza di prospettive. E non è poco. Specie perché PaP si pone in una traiettoria oggi sicuramente di estrema minoranza, ma a vocazione potenzialmente maggioritaria se continuerà a cercare di interpretare il malcontento delle classi popolari a cui si rivolge e non subalterna e/o minoritaria come quelle che puntano alla mera estetica dei simboli o peggio a “eleggere” come conseguenza della loro utilità alla sinistra del (defunto) centrosinistra. E ancor di più sono una risorsa le 160 assemblee territoriali da non lasciar morire, ma da moltiplicare e valorizzare diversamente per usare i mesi di non campagna elettorale per un radicamento e stabilizzazione di un processo politico simile.
– Cosa fare ora? Secondo noi bisogna fare un passo per volta e ogni passo successivo deve essere in avanti. Se non si vuole affossare tutto con i soliti errori, ora il processo va democratizzato, allargato e radicato. Un’idea potrebbe essere che le assemblee territoriali diventino una sorta di nodi ufficiali di PaP che devono avere una relazione chiara con organismi nazionali leggeri, politici ma anche operativi. All’interno dei nodi territoriali bisogna moltiplicarsi promuovendo comitati di ogni tipo (di zona, di azienda, di settore, di scuola, tematiche) che vogliano aderire a PaP senza troppi schematismi. I nodi territoriali devono dare una rappresentanza che entri nel coordinamento nazionale insieme ai soggetti promotori in organismi che decidano, ma che diano anche l’impressione di essere permeabili alle spinte e alle persone che dal basso vengono promosse/proposte. Allo stesso modo che nelle strutture di PaP, anche nelle pratiche politiche e sociali la diatriba movimenti/organizzazioni non deve esistere, ma il rapporto deve essere “osmotico” e di reciproca messa a disposizione. Le sedi di ciascuno restano della propria area, ma vengono messe a disposizione delle pratiche comuni. Questo perchè il processo non può essere forzato in un nuovo soggetto-partitino andandosi a chiudere in un angolo ma deve rappresentare il luogo semmai della soggettivazione politica di conflitti, battaglie e mutualismo attarverso la confederalità sociale.
I partiti, le organizzazioni, i sindacati, i centri sociali così non entrerebbero in conflitto tra loro per cercare di “imporsi” come sbocco obbligato del processo politico ma resterebbero complementari e con proprie funzioni specifiche importanti ma non sovrapponibili a quelle di PaP. Ovviamente nel progetto di PaP vanno inserite proprio le pratiche e campagne comuni. Oltre a mettere a valor comune quello che di buono già ciascuno fa (e che va mappato) e che è condiviso da tutti (il resto come detto ciascuno può continuare a farlo senza vincolare tutto il processo unitario) ci vogliono due sole cose per ora secondo noi: 1) due o tre campagne comuni visibili in ogni territorio che tendano a irrompere nel dibattito politico e a permeare in strati più larghi di popolazione (anche con raccolte firme per leggi di iniziativa popolare); 2) farsi centro promotore unitario e sostenere/aderire senza settarismi ad ogni manifestazione di opposizione alla prosecuzione delle politiche di austerity e a quelle liberticide dei futuri governi.
– Se si fanno queste poche cose, bastano due utleriori elementi di chiarezza e avremo già il baricentro giusto per non arrivare all’ultimo momento alle elezioni europee, amministrative o a eventuali nuove politiche senza dover ricominciare da zero o senza dover confluire in nuove proposte, per mancanza di alternative, che vanno in direzione differente da tutto questo: 1) l’intreccio da subito di relazioni con altre forze politiche del GUE anti-PSE degli altri paesi con una posizione di costruzione del Piano B rispetto all’irriformabilità e dei Trattati europei, alla rottura del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact; 2) lavorare solo su un tavolo e evitare la politica dei due-tre forni e delle alleanze “variabili”: la sigla e il simbolo su cui ci si impegna in elezioni e processi unitari di tipo politico è Potere al Popolo e non ce ne saranno altre. Solo così eviteremo le solite rotture e divisioni e soprattutto avremo uno scopo “sociale” comune nel conflitto quotidiano e nel tessuto sociale che renda credibile che PaP diventi un riferimento politico per tutti e che trovi sintesi adeguate su vari temi su cui ci sono e ci saranno differenze (tipo lavoro, reddito, sindacato, Europa).