Sconfiggere il pensiero della sconfitta: ecco il primo compito politico della fase. Cos’è il pensiero della sconfitta? È l’assunzione dell’impossibilità di trasformare lo stato di cose presente, è l’accettazione di un ruolo marginale, è alzare nei fatti una bandiera bianca pur sventolando ideologicamente una bandiera rossa.
Il pensiero della sconfitta può assumere due forme, opposte e speculari: da un lato la ghettizzazione nella testimonianza identitaria, dall’altro l’opportunismo di chi dice “basta perdere” e allora salta sul carro dei vincitori, o sedicenti tali.
Allora, sconfiggere il pensiero della sconfitta significa rompere con l’accettazione dell’esistente. L’accettazione di una vita comandata dal rapporto sociale capitalistico, l’accettazione di noi stessi in quanto incarnazione di quel rapporto sociale, l’accettazione della nostra impotenza politica, l’accettazione di un’identità ai margini.
Tutti gli indicatori ci parlano di una economia in crisi ancora per lungo tempo, con disoccupazione di massa e con uno stato sociale che si restringe sempre più.
L’orizzonte che si prospetta davanti ai nostri occhi appare sempre più chiaro: o siamo in grado di rideclinare e sostenere una rinnovata “lotta di classe” o la “guerra tra poveri” sarà permanente; o costruiremo nuove reti di solidarietà sociale che creano altra economia o avremo egoismo e collasso ambientale, o daremo lo spunto per una nuova cittadinanza e voce ai diritti o avremo xenofobia e violenza di Stato.
Oggi la violenza diffusa contro i diversi etichettati come nemici pubblici da sacrificare nella spirale della crisi è la cifra della crisi sociale che ci attraversa. Un razzismo istituzionale e “democratico” che ha gradatamente permeato la società e che si è ora vistosamente e concretamente rafforzato con le politiche che hanno preso il nome del ministro di polizia, Marco Minniti. Fare della legalità e della sicurezza un vessillo da parte di larghi settori della sinistra politica, facendone un totem aprioristico e indiscutibile, ha di fatto prodotto l’abbandono della propria ragione, del proprio campo, della difesa dei più deboli, dell’affermazione della giustizia sociale contro le diseguaglianze, per divenire obiettivamente e inopinatamente funzionale a quella “lotta di classe dall’alto verso il basso”.
Il neoliberismo come scrive Loique Waquant impone una giustizia a doppio livello, garantista con i ricchi, spietata per i poveri. Non è un caso che in tutta Europa i tassi di incarcerazione crescono al crescere della disoccupazione e alla diminuzione delle spese sociali e dell’istruzione, e non è un caso che in Italia si discute di come costruire e aprire nuove carceri invece di impedire che chiudano le fabbriche.
Questa crisi accentua la metamorfosi dello stato sociale in stato penale, la forma di governo e la forma Stato sono sottoposte ad una duplice e contrapposta tensione: o un assoluto approdo plebiscitario e populista che fa della tolleranza zero il suo funzionamento elementare, oppure la ricostruzione di uno spazio pubblico aperto, fondato su una fitta rete solidale, conflittuale e orizzontale.
La crisi economica non modifica solo le istituzioni classiche, ma modifica primariamente le relazioni, ed è quindi, anche crisi della società, ed è quindi crisi della politica la cui efficacia è stata svuotata in questi decenni da processi giuridici e normativi che spesso si sono originati al di fuori dei parlamenti nazionali. Una crisi politica che colpisce soprattutto chi come noi vede nella politica la speranza del cambiamento senza cadere nel voto di scambio o nel qualunquismo populista che sono spesso faccia della stessa medaglia.
La frammentazione sociale e la mancanza di spazi aggregativi dentro territori sempre più desertificati, alimenta infatti quel senso di debolezza e di impotenza che impedisce a chi sta male di collettivizzare il proprio disagio, di riconoscersi in una condizione comune a diverse figure sociali (gli studenti, i lavoratori, i disoccupati, i migranti). Senza la percezione di una potenza collettiva possibile, il peggioramento delle condizioni di vita non si traduce in rabbia attiva e disponibilità alla lotta, ma in ulteriore subalternità. Si tratta di un nodo inaggirabile per tutti coloro che vogliono organizzarsi e mobilitarsi contro questo presente, contro lo sfruttamento sempre più selvaggio del lavoro, del nostro tempo di vita, dei territori.
Come riaggregare la dispersione? Come ricostruire legami di solidarietà di classe a partire dai bisogni che un numero crescente di persone non riescono più a soddisfare?
Addentrarsi nel sociale con un’idea forte, di trasformazione della società come noi vogliamo, necessita di una ricostruzione di un blocco sociale in grado di misurarsi con i rapporti di forza che esistono nella società. Altrimenti il rischio è quello di lavorare in superficie, come se stessimo giocando alla lotta di classe con la play station che ti fa apparire un mondo del tutto differente dalla realtà quotidiana.
Se questa crisi determina una crisi verticale di credibilità delle classi dominanti, allora ritengo che il punto centrale sul quale lavorare non sia come avviare una discussione all’uscita della crisi del capitalismo spostando eventualmente un po’ più a sinistra Keynes, ma piuttosto gettando le basi per cominciare a riflettere su come uscire dalla crisi del capitalismo costruendo un’ipotesi concreta, agibile nel quotidiano, della nostra idea di “un altro mondo possibile”.
In questo senso le pratiche sociali, seppur fondamentali per ricostruire legami e solidarietà all’interno di questa società impaurita, servono a poco se da un lato non riusciamo collettivamente a delineare un programma di trasformazione sociale, comprensibile soprattutto ai ceti popolari, e se dall’altro non cominciamo a dire in termini chiari chi sono gli avversari contro i quali dobbiamo lottare.
Un processo a spirale che si allarga attraverso le pratiche e un orizzonte simbolico comprensibile, un processo che tende a riunire quel noi collettivo che vive oggi una dimensione d’impoverimento drammatica, in termini di salario e diritti sociali, civili, ambientali e culturali. In questi mesi tante volte mi sono trovato di fronte lavoratori di fabbriche in crisi, precari ed il senso prevalente è stato quello della rassegnazione e frammentazione, di sfiducia nella politica e nell’azione collettiva.
In questi anni abbiamo visto come nella crisi della politica la socialità dell’organizzazione politica e sindacale sia evaporata, e come la risposta messa in campo sia stata profondamente dannosa. Verticalizzazione estrema in chiave personalistica, leaderistica e mediatica delle forme partito, delegittimazione delle attività di radicamento sociale sostituita con l’impatto mediatico come panacea di tutti mali, l’idea esclusiva del governo per il governo riducendo la base sociale ad essere solo potenziali “clienti-elettori” a cui vendere il proprio prodotto tramite i salotti televisivi.
Senza nessuna internità e reale radicamento sociale nel vissuto di centinaia di migliaia di lavoratori, precari, uomini e donne lasciati soli dalla crisi, l’essere di “sinistra” si è disperso in questi anni.
Un potenziale disperso per tanti errori strategici o da un massimalismo senza basi solide nella realtà.
Ci sarà un perché in tutta Europa la cosiddetta sinistra radicale viaggia a due cifre ed in Italia ormai da anni è extraparlamentare??.
A chi ha visto perdere il potere d’acquisto di salari e pensioni, a chi ha perso il lavoro la sinistra ha offerto l’unico spettacolo delle scissioni infinite, di gruppi dirigenti di fatto separati dal sociale.
Oggi per evitare quello che Marx individuava nella polemica con le “sette socialiste” quando affermava che “cercare la base reale della propria agitazione non dagli elementi concreti del movimento delle classi, bensì di voler prescrivere a tale movimento il suo corso in base ad una certa ricetta dottrinale” è necessario ricomporre quello che è stato separato in questi anni dalla trasformazioni sociali prodotte dal capitalismo e provare dalle pratiche a ripercorrere la strada inversa.
Una modalità dell’azione politica che costruisce un luogo d’incontro a partire dal fare sociale tra un movimento che si socializza, che lavora per l’autorganizzazione, sviluppando forme di neomutualismo, di solidarietà, in rapporto diretto con le vertenze, con i conflitti sociali, con le lotte e con le reti sociali esistenti o in formazione. Nella storia del movimento operaio non sempre solidarietà tra pari e conflitto sociale si sono intrecciate, io ritengo che lo sforzo inedito che dovremmo fare è tenere assieme questi due aspetti in maniera simbiotica.
Per questo la democrazia e la pratica assembleare debbono essere un punto irrinunciabile in questo processo.
La mia idea di pratica sociale non è quella dell’intervento verticale che determina forme di dipendenza delle persone alle quali diamo una mano, ma il tentativo di sviluppare elementi di presa di voce e di autorganizzazione sociale. Un intervento non neutro ma volto al cambiamento del contesto di dove operiamo.
Non agire per soddisfare i bisogni sociali dei cittadini ma agire con i cittadini per soddisfare i bisogni sociali, distinguendoci quindi, a partire dal funzionamento concreto della nostra attività al meccanismo verticale dell’intervento della gran parte delle organizzazioni che lavorano in questo ambito.
Le nostre pratiche non devono sostituirsi allo stato sociale ma debbono produrre elementi di espansione, lavorando nel terreno della ricostruzione di forme di neomutualismo e vertenzialità, in rapporto al livello di efficacia che possiamo esprimere eventualmente nei livelli istituzionali.
Coniugare questa ricerca con le nostre pratiche che devono farci identificare come utili socialmente (dal blocco di uno sfratto, ad una cassa di resistenza, da un gruppo di acquisto popolare ad un ambulatorio e doposcuola popolare) è compito complesso, difficile ma necessario.
Si tratta quindi di riannodare il filo. Oggi è il tempo dell’organizzazione sociale dell’opposizione dentro la crisi.
Personalmente mi piace partire, o meglio ripartire, come punto di riferimento teorico all’ossimoro marxiano dell’”individuo sociale”. La sfida ineludibile del “saper fare società” contrasta la deriva dell’autonomia della politica, che è la morte della politica perché è la politica “senza società”.