Piemonte

[Torino] Apprendere, Comprendere, Agire: per una Scuola come laboratorio della trasformazione sociale

Assemblea nazionale Scuola - Potere al Popolo!

1a Assemblea Nazionale di PAP Scuola – Torino, 10 e 11 Novembre

0 – Premessa Le pagine che seguono costituiscono una sintesi delle elaborazioni sul tema della scuola che in questi mesi hanno preso forma dentro “Potere al Popolo!” su diversi argomenti e provano a collegarle in un discorso coerente che non può essere – oggi – che un semplice punto di avvio di una proposta culturale, teorica e politica in via di definizione, anche sul mondo dell’istruzione e della formazione. Consapevoli di questo grado di parziale incompiutezza, le sottoponiamo ai partecipanti all’Assemblea, ai compagni di Pap e a chiunque sia interessato alle sorti della scuola. Peraltro, questa dichiarata incompiutezza non deve spaventare nessuno. Oggi non esiste alcun soggetto politico che faccia dell’analisi sulla scuola uno dei suoi punti di forza ed uno dei suoi terreni di intervento strategico; d’altra parte, livelli di elaborazione teorica più avanzati – in ambiti accademici, di appelli collettivi o di riviste per lo più on-line, con cui comunque dobbiamo provare a stringere rapporti – sono spesso avulsi dal contesto generale e non hanno alcuna relazione con i soggetti reali, o scontano un notevole ritardo da un punto di vista della proposta politica. Ritrovare la capacità di unire un piano elevato di analisi teorica ed una prospettiva politica di trasformazione adeguata alla fase storica, è uno dei principali obiettivi che, pur con la dovuta modestia, dobbiamo darci, recuperando una grande tradizione che, per limitarci al nostro paese, ha visto interrogarsi, sul rapporto tra scuola e politica, intellettuali come Francesco De Sanctis, Antonio Labriola, Antonio Gramsci, Franco Fortini, solo per fare alcuni nomi. Allo stesso tempo ci dobbiamo attrezzare per il nuovo, che nessun libro può in sé preparare ad affrontare, e su cui dobbiamo vedercela da soli, perché come sempre non esistono ricette per le osterie dell’avvenire. Questa piccola premessa vuole anche anticipare alcune critiche sulle inevitabili contraddizioni o sui nodi che certamente questa sintesi non avrà sciolto, e che solo dal confronto franco e dallo sforzo intellettuale collettivo che dobbiamo insieme compiere, nella due giorni torinese ed ancor più nei prossimi mesi, potranno procedere ad un grado di maturazione più elevato. La sintesi che segue tiene conto dei cinque documenti di partenza, delle integrazioni che sui diversi temi sono giunte, degli ultimi e recentissimi contributi su formazione insegnanti e militarizzazione delle scuole, che qui proviamo a inserire nel ragionamento, naturalmente lasciando ai compagni che li hanno prodotti il compito di integrare in assemblea quanto sarà per ragioni di spazio rimasto fuori.

1 – L’«Europa della conoscenza»: il nostro vero nemico

È sempre più difficile comprendere i processi di trasformazione della scuola italiana senza confrontarsi con le politiche europee sull’istruzione. L’«Europa della conoscenza», questo esile mito che ha per qualche decennio rappresentato l’orizzonte più elevato da raggiungere agli occhi di insegnanti, studenti, famiglie, si è rivelata per quello che è: uno strumento delle classi dirigenti per sussumere la formazione della forza-lavoro continentale negli obiettivi strategici della competizione internazionale, divenuta nel frattempo sempre più aspra. L’illusione di una prospettiva di crescita collettiva è durata relativamente poco dal punto di vista cronologico (un quarto di secolo circa, a partire da Maastricht), ma ha fatto in tempo a fare macerie del senso critico e della coscienza politica dentro l’istituzione scolastica. Oggi, a seguito di un martellante ciclo di interventi legislativi sul sistema di istruzione nazionale che ha avuto solo un suggello e un coronamento con la 107/2015, il tempo è maturo per mettere al centro della crisi della scuola, della sua funzione e dei suoi scopi, del suo piegarsi a esigenze che sempre meno corrispondono alle funzioni emancipatorie iscritte nel dettato costituzionale, il vero motore di tutto: il sistema della formazione europeo e le sue finalità reali. Ognuno di noi sa bene, infatti, che ogni potere, sia esso statuale o sovrastatuale come quello della UE, ha tra gli strumenti più formidabili quello di determinare modelli formativi volti a costruire e perpetuare il tipo di società corrispondente ai suoi interessi; e allo stesso tempo di trasformare forme e contenuti di quei modelli in relazione (né in semplice conseguenza, né naturalmente come elemento prescrittivo) alla struttura produttiva e ai rapporti di produzione. Nell’attuale fase del modo di produzione capitalistico, i modelli universalmente accolti tendono a rientrare tra quelli elaborati dall’OCSE, volti alla creazione di sistemi di

valutazione (cioè misurazione) dei sistemi educativi dei paesi industrializzati. Il processo di formazione dell’Unione Europea, fin dal suo trattato fondativo, non sfugge a questa dinamica. Il tentativo di costruire una identità comune e di condurla “naturalmente” dentro le istituzioni europee, ha avuto nella scuola forse il suo apparato ideologico più rilevante, instaurando una distorta dinamica vecchio/nuovo tra le spinte “modernizzatrici” e le resistenze, di varia natura, che si opponevano a questo finora apparentemente inarrestabile processo, basato su un collegamento stretto tra le riforme dei modelli formativi a livello europeo, le legislazioni nazionali (tra le quali quella del nostro Paese, con la sua subordinazione al nucleo forte della UE ed il suo diventare serbatoio di forza-lavoro prevalentemente con livello di formazione medio-basso), la didattica delle competenze (e insieme il sistema dell’ASL) e l’idea di società che la scuola oggi trasmette. Se si fa la storia della riflessione teorica e politica sui sistemi formativi riferita agli ultimi venticinque/trenta anni o poco più, fino ad oggi, si scopre una insospettabile quantità di passaggi che a diversi livelli affrontano la questione a livello europeo, con ricadute naturalmente sui singoli Stati. Per avere un elenco dettagliato e davvero impressionante per la sistematicità con cui si è proceduto a mettere le mani su questo terreno, si può agevolmente consultare il seguente articolo http://contropiano.org/news/cultura- news/2015/09/15/cronistoria-della-distruzione-della-scuola-pubblica-in-italia-ce-l-ha-chiesto-l-europa- 032842 o fare riferimento alla versione estesa di questo documento. Il processo nel suo complesso si può descrivere così: creare un sistema di valutazione internazionale che renda comparabili non solo i sistemi scolastici, ma la stessa forza lavoro scolarizzata in uscita, una parte della quale è destinata ad emigrare, perché il cuore produttivo europeo non sta certo in Italia. Su questi temi la produzione teorica e l’analisi cominciano ad essere abbastanza consistenti, a partire dalle pubblicazioni dall’antesignano degli studi sulla nascita di una politica educativa comune in Europa, Nico Hirtt, fondatore dell’APED (Appel Pour une École Démocratique) e convinto sostenitore di forme di educazione politecnica, nel senso di una relazione fruttuosa tra saperi e pratica, che crei un circolo dove i saperi si ampliano e approfondiscono sulla base dell’esperienza, ma anche oltre essa, a fronte delle distorsioni della didattica per competenze e dell’alternanza scuola lavoro (“buona”, “cattiva”, “orientata sulla cultura del lavoro” che sia), spacciate come nesso virtuoso tra teoria e prassi, ma in realtà strumento di asservimento della scuola al mercato. Se il livello dello scontro che dobbiamo sostenere è questo, a questa altezza dobbiamo sapere collocare le risposte, declinandole su un piano politico generale ma anche su una capacità di rapporto con i soggetti sociali che nella scuola operano. Queste delle possibili linee di intervento:

  1. Dobbiamo riuscire a mostrare il fatto che dentro i vincoli di bilancio imposti dai Trattati europei, in particolare con la modifica dell’articolo 81 della Costituzione, non vi è alcuna possibilità di invertire sulla tendenza alla dequalificazione della scuola e dei suoi lavoratori, nessuna possibilità di avere contratti e salari adeguati, messa in sicurezza delle scuole, un piano adeguato di assunzioni, un corretto numero di alunni per classe, etc.;
  2. Dobbiamo entrare, come fanno gli altri contributi che portiamo alla discussione, nel merito della costruzione ideologica che ha trasformato la relazione educativa piegandola totalmente nella direzione della costruzione di forza-lavoro con competenze generiche di base, per contrastarla. Esiste un ambito, quello della formazione docenti e delle teorie sulla scuola, che è un enorme campo dove si gioca una partita egemonica fondamentale. Pensare che sia un partita italiana che possa non toccare i centri di elaborazione culturale del capitale, significa condannarsi alla marginalità;
  3. Dobbiamo costruire una relazione politica con gli studenti, e lavorare sul fatto che la crisi e la disoccupazione di massa (con le annesse derive razziste) non sono altro che la forma in cui si manifesta la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive – dunque la possibilità vera di ridurre orario di lavoro e dedicare a cultura, sapere e crescita delle facoltà umane una parte di tempo liberato dentro e fuori dalle scuole – e rapporti di produzione. L’assenza di futuro per le giovani generazioni viene, attraverso diverse mediazioni, da qui. La lotta comune è questa e passa dalla rottura dell’«Europa della conoscenza». Non si può combattere per una scuola diversa e dunque per una società diversa, senza combattere l’Unione Europea.

2 – Dalla critica delle competenze alla didattica dell’autodeterminazione

  1. Il feticcio delle competenze e le necessità del capitale

La didattica per competenze è l’architrave su cui si regge l’impianto della scuola liberista, così come le riforme europee l’hanno disegnata. Ne è quello che qui definiamo il primo corollario. Attorno al “feticcio” delle competenze è stata costruita una complessa mistificazione ideologica: dietro il paravento progressista del superamento e svecchiamento dei metodi di apprendimento basati sulla specificità delle discipline, si propone una rilettura utilitaristica del rapporto tra le conoscenze e la loro applicazione. Che l’obiettivo sia invece quello di collegare strettamente i cicli d’istruzione scolastica alle esigenze mutevoli del mercato del lavoro non è un segreto: chi sono i più accaniti sostenitori delle competenze, se non Banca Mondiale, OCSE e Commissione Europea? La recente Raccomandazione del Parlamento Europeo del 22 maggio 2018 sull’educazione, getta la maschera, quando afferma: “Gli Stati membri dovrebbero […] incoraggiare la competenza imprenditoriale, la creatività e lo spirito di iniziativa in particolare tra i giovani, ad esempio favorendo le occasioni in cui i giovani possano fare almeno un’esperienza imprenditoriale pratica durante l’istruzione scolastica.” La retorica del self-made man nasconde la realtà del capitalismo mondiale. Il continuo e imprevedibile alternarsi di crisi economiche e cicli di innovazione tecnologica impedisce la programmazione nella riproduzione della forza-lavoro: è questa esigenza che spinge alla promozione di sistemi educativi in cui gli uomini e le donne di domani devono essere formati alla flessibilità, all’adattamento continuo e all’auto- imprenditorialità – ennesimo perverso vocabolo coniato dalla neo-lingua liberista. I sistemi educativi basati sull’apprendimento per competenze sono dunque funzionali alla riproduzione del capitale, come tali sono la cornice ideologica dentro cui i soggetti che operano nel campo dell’educazione sono costretti a muoversi.

  1. Demistificare la teoria delle competenze

Sconfiggere la pervicace ostinazione con cui il discorso dominante presenta la didattica delle competenze deve essere nostro primario obiettivo. A questo scopo occorre svolgere un’opera di puntuale contro- informazione sulla genealogia di questa pratica didattica. Va chiarito ciò che è stato rimosso: l’apprendimento basato sulle competenze è nato nell’ambito della formazione professionale e aziendale, ormai quarant’anni fa, nel momento in cui erano in corso le ristrutturazioni produttive post-fordiste. Solo in seguito, tale pratica didattica venne introdotta nella formazione scolastica generale, senza che, tra i teorici della pedagogia, si sia mai arrivati a una solida teoria condivisa su cosa intendere con il concetto di “competenza”. Non si può però negare che, attualmente, la didattica per competenze riscuota un certo consenso tra il corpo docente italiano. Questo è stato possibile, principalmente, per tre ragioni che hanno operato intrecciandosi tra loro: a) la stratificazione di direttive e dispositivi dall’alto (Decreto “Fioroni”, Riforma Gelmini, obbligo delle prove INVALSI, etc.) che ha piegato le iniziali resistenze da parte del corpo docente all’accertamento delle competenze attraverso prove specifiche; b) i percorsi formativi per accedere alla professione docente (SIS, TFA, PAS, FIT, Lauree in Scienze della Formazione) che hanno presentato e presentano la didattica per competenze come una ineludibile necessità; c) l’equivoco, in vari modi replicato, secondo cui l’apprendimento per competenze sarebbe l’applicazione più recente di teorie pedagogiche progressiste, come quella socio-costruttivista. È in particolar modo il radicamento di quest’ultima convinzione, ciò che rende quanto mai difficile criticare la didattica per competenze senza essere tacciati di conservatorismo. Bisogna contrastare questo equivoco in tutti modi, ricordando che la didattica per competenze, pur cogliendo un problema antico, cioè quello di trasformare i saperi da “inerti” a “vivi”, propone tuttavia una risposta profondamente sbagliata. Essa riduce i saperi a semplici “attrezzi”, a meri “strumenti utilizzabili” da impiegare per risolvere problemi concreti, ponendo così del tutto in secondo piano gli aspetti euristici che accompagnano la loro assimilazione critica. Al contempo la didattica per competenze si rivela essere nient’altro che una teoria della comunicazione, o se vogliamo della “mobilitazione” dei saperi, in cui ciò che si chiede ai discenti è semplicemente saper comunicare i saperi, e/o saperli usare in contesti specifici e definiti possibilmente nei contesti lavorativi, non

certo rielaborarli, farli propri e discuterli criticamente. Del tutto diversa era ed è invece la prospettiva socio- costruttivista, secondo la quale il fine ultimo dell’apprendimento sono proprio i saperi e non certo il loro uso pratico o la loro comunicabilità ed essi si apprendono dentro e attraverso il contesto sociale che ci circonda, che così torna, come deve, ad essere una questione centrale della fomazione, nel bene e nel male. Da questo chiarimento e dalla necessità di una “risemantizzazione” delle discipline di insegnamento può ripartire la nostra proposta didattica.

  1. Riprendiamoci la formazione

Alla ricomposizione autentica della distanza tra teoria e prassi è dedicata una parte importante di questo documento (si veda la sezione “Slow School”), dove si gettano le basi di un nuovo orizzonte pedagogico. La necessità di non chiudersi nel conservatorismo e nel culto umanistico delle discipline impone tuttavia che il tema delle competenze sia esplorato anche per quanto riguarda la formazione dei docenti. È necessario comprendere che i dispositivi legislativi che si sono succeduti – in particolare a partire dal varo della cosiddetta “autonomia scolastica” a fine anni Novanta – hanno via via definito in maniera sempre più stringente i contorni della figura del docente, minando a fondo la libertà d’insegnamento garantita dalla Carta costituzionale. Oggi la figura del docente corrisponde sempre più a una “funzione” dotata di specifiche “competenze” e, se prendiamo come riferimento il DM 10 settembre 2010, n. 249, solo una di queste competenze ha a che fare con la trasmissione di contenuti disciplinari. Non è un caso che i canali formativi per diventare insegnanti, così come la formazione in servizio (i cui cardini sono oggi racchiusi nel Piano Nazionale Formazione Docenti), abbondino di percorsi psico- pedagogici trasversali, ma difettino di pedagogie e metodologie legate alle singole discipline. È così che la formazione dei docenti si traduce in “formattazione delle menti”: la scuola del capitale ha bisogno di insegnanti standardizzati. È questo l’insegnante-funzione delineato dai dispositivi di legge: non certo un intellettuale e nemmeno un operatore culturale dotato di autonomia. Ed è proprio secondo questo paradigma dominante che l’insegnante si trasforma in un addestratore di competenze. Bisogna ripartire da questa decennale e logorante guerra di posizione condotta contro la libertà d’insegnamento per lanciare una controffensiva che rimetta al centro le possibilità di autodeterminazione che i saperi disciplinari offrono. È necessario, ad esempio, riappropriarsi dei corsi di aggiornamento. Si possono promuovere percorsi che abbiano il duplice obiettivo di analizzare la scuola come luogo di riproduzione dei rapporti sociali vigenti e riflettere su metodi didattici disciplinari che possano restituire alle discipline il loro potenziale critico. Sarebbe un primo passo verso la rottura del paradigma dominante, offrendo così alle generazioni che verranno un immaginario nuovo per riappropriarsi del futuro.

3 – Le nuove frontiere dello sfruttamento: l’Alternanza scuola lavoro

  1. Tra manodopera gratuita e messa a produzione del lavoro scolastico

Il secondo corollario delle riforme europee è senz’altro l’ASL e più in generale il sistema duale istruzione- lavoro, per procedere in direzione di un’omologazione dei sistemi formativi nell’area Euro e per sollecitare lo scambio fra educazione pubblica e mercato del lavoro. La nuova compagine di governo sta mettendo in discussione alcuni aspetti della legge 107, in particolare il fatto che tutti gli studenti debbano svolgere durante il triennio un certo numero di ore di alternanza (200 per i licei, 400 per gli istituti tecnici e professionali). Se le dichiarazioni del Ministro Bussetti verranno confermate, si andrà ad una notevole riduzione oraria, che non va però confusa con un abbandono del progetto strategico di cui sopra, ovvero una razionalizzazione dal punto di vista del capitale del rapporto tra mondo della scuola e organizzazione produttiva. L’attività, come è noto, era stata introdotta per le scuole professionali già dalla Riforma Moratti, ma solo nel 2015 ha trovato un potenziamento e una generalizzazione. Nell’anno scolastico 2017/2018, con la riforma a pieno regime, si calcola che il progetto abbia coinvolto circa 1,5 milioni di studenti, in un meccanismo distante dal diventare omogeneo e dal soddisfare le aspettative di studenti e genitori, spesso entusiasti di vedere che la scuola si adopera per ”inserire i ragazzi nel mondo del lavoro”. Due terzi degli studenti si è infatti trovata a svolgere mansioni dequalificanti, poco formative, ripetitive, che poco avevano a che fare con il percorso scolastico scelto, trasformandosi in un

enorme bacino di manodopera gratuita a cui le aziende hanno accesso ogni anno.

  1. Legittimare le disuguaglianze territoriali e di classe: il passo indietro dello Stato e il protagonismo dei privati

Ovviamente i risultati non sono gli stessi dappertutto: svolgere un progetto di alternanza al liceo Parini di Milano non è come frequentare un istituto a Medio Campidano. Questo perché grazie al principio dell’autonomia scolastica, introdotto con la legge Ruberti del 1990 a proposito dell’università, incentivato da tutti i governi successivi ed esteso all’ambito delle scuole secondarie, si è inaugurato ormai da tempo un processo di profonda trasformazione in materia di gestione delle risorse e dell’offerta formativa degli istituti e che ha visto una sempre maggiore partecipazione di soggetti privati. Nell’ambito specifico dell’Alternanza Scuola Lavoro, questa pratica è stata suggellata dai cosiddetti school bonus, provvedimento che permette agli istituti scolastici di ricevere finanziamenti da soggetti privati fino a 100mila euro e che mostrano bene come lo Stato, dopo anni di pesanti tagli alla spesa pubblica, stia operando l’ennesimo passo indietro rispetto al proprio ruolo di garantire un’educazione di qualità per tutti. Ci saranno quindi scuole che per collocazione geografica, accessibilità a risorse private, caratteristiche di programmi e capacità del dirigente di intrattenere rapporti con le imprese forniranno un’alternanza di serie A, spesso accompagnata da progetti di scambio all’estero volti a garantire un’esperienza formativa di qualità, primo passo nella selezione di una classe dirigente. Viceversa altre scuole, partendo da una base economica e da un tessuto produttivo circostante differente, manderanno i propri studenti a girare hamburger, fare fotocopie, riordinare camere d’albergo, quando non proporranno progetti ancora più discutibili in accordo con il Ministero della Difesa. Il risultato è comunque un accentuarsi delle disuguaglianze non solo fra centro e periferia, ma anche tra Nord e Sud del Paese. Il progetto di regionalizzazione delle scuole (e non soltanto) di cui si discute in queste settimane, che dovrà vederci pronti nell’analisi, nella denuncia e nella mobilitazione, non farà che acuire questa tendenza già evidente.

  1. Competizione, accettazione e paradigma manegeriale: gli strumenti ideologici dell’alternanza

L’Alternanza scuola-lavoro svolge oggi una fondamentale funzione ideologica. Parola chiave dell’Alternanza e in generale dell’intera Buona Scuola è il binomio scuola-azienda, sorretto da un altro concetto cardine attorno al quale ruota tutta la retorica di questo paradigma educativo: la competizione. Essa non avviene solo fra gli istituti nell’accaparrarsi risorse, prestigio e dunque iscritti, ma viene attivamente promossa anche tra i banchi di scuola e diventa elemento imprescindibile per la formazione del lavoratore e del cittadino globale del domani. La cornice ideologica in cui si inscrive la 107 è infatti un insieme di illusioni e dichiarazioni molto chiare, mirate a forgiare un nuovo studente per una nuova fase del modo di produzione capitalistico in crisi. Gli studenti devono infatti, sia sul luogo di lavoro, sia durante i progetti di azienda simulata, imparare a interiorizzare la cultura di impresa, sviluppare una creatività che permetta loro di sapersi vendere meglio degli altri e diventare quell’uno che si è salvato per meriti personali a fronte degli altri 99. Non muoversi sulla linea della totale abrogazione, chiedere un semplice miglioramento del provvedimento, una riduzione delle ore o solo un aumento dei diritti in alternanza, equivale a ignorare il contesto economico in cui le riforme scolastiche degli ultimi vent’anni hanno operato, a ignorarne le linee guida e il nesso inscindibile che lega formazione, mercato del lavoro ed egemonia. D’altra parte rivendicare un salario per gli studenti in alternanza equivarrebbe ad accettare questa definizione di studenti-lavoratori ed a riconoscere pari valore formativo all’attività svolta sul posto di lavoro. C’è un tempo per imparare e studiare e un tempo per lavorare e produrre valore. Altro discorso riguarderà invece il rapporto tra sapere teorico e sapere pratico, ma l’argomento è talmente serio da non meritare di essere confuso con l’ASL da pur volenterosi sostenitori di alternanze virtuose. Non esiste alternanza buona, così come non esiste uno sfruttamento ”virtuoso”. Ecco perché occorre prima di tutto rifiutare questo paradigma culturale che irrigidisce le nuove generazioni, inserendole in recinti sempre più piccoli sotto lo spauracchio della crisi. Un paradigma che rende le scuole sempre più aziendaliste e classiste, che atomizza gli studenti aumentando la frustrazione di una generazione che per la prima volta nella storia si troverà ad essere più povera di quella dei propri genitori. Quello da cui ripartire è quindi un nuovo modello di scuola pubblica libera dagli interessi privati, capace di garantire un’istruzione di qualità per tutti e che non giustifichi lo sfruttamento massiccio di manodopera studentesca a fronte di un mercato del lavoro sempre più deprimente. Il fronte da costruire quindi passa sia attraverso gli

ambienti scolastici con professori e studenti in primis, ma anche interfacciandosi con tutte quelle figure che vivono, in quanto giovani lavoratori condannati alla precarietà e alla disoccupazione di massa, una condizione analoga. A questi si aggiungono i lavoratori sui posti di lavoro che dal monte ore gratuito fornito dall’Alternanza hanno ricavato solo una maggiore ricattabilità, se non direttamente un motivo in più per essere licenziati.

4 – Governare la crisi: sorvegliare, militarizzare e punire

La militarizzazione e lo sviluppo dei dispositivi di sorveglianza nelle scuole costituiscono il terzo corollario dei processi che ridisegnano ruolo e funzione della scuola nei paesi europei e nel nostro, in special modo in presenza di una crisi sociale che investe in maniera così pesante i settori giovanili. L’attuale impreparazione culturale e ideologica del corpo docente, legata a motivi storici su cui quanto detto nelle parti precedenti per il momento può bastare, è la base su cui si registra un’altra mancanza di resistenza culturale, ossia quella legata alla presenza dei corpi di polizia e militari nella scuola. In Italia è sempre più frequente la presenza di Polizia, Carabinieri, Vigili urbani, Militari, Marines USA che entrano nella scuola a vario titolo. Il primo e più importante è quello “educativo”: i progetti che la scuola porta avanti per allargare “l’offerta formativa” o per intrecciare “legami col territorio” (tutti obiettivi nati dalle nuove riforme della scuola), vedono sempre più la presenza di questi corpi militari. Il giornalista indipendente e insegnante Antonio Mazzeo ha fatto diverse inchieste per rendere noto in tutte le scuole d’Italia il coinvolgimento sistematico dei corpi militari e di polizia. Ha mostrato anche le modalità con cui avviene questo coinvolgimento: attraverso tutti quei “progetti” che la scuola mette in campo per allargare l’offerta formativa: educazione alimentare, educazione alla legalità, educazione stradale, lotta al cyberbullismo, cultura dello sport, intercultura, corsi di lingua, cittadinanza attiva, ecc. Come mai questa presenza così sistematica e capillare? Da tempo le istituzioni di questo paese sono oggettivamente in difficoltà ad affrontare la esigenze sociali dei suoi cittadini. La crisi economica di lunga durata (la cui manifestazione finanziaria del 2007-2009 è stata solo un aspetto) non trova una via d’uscita. Questa crisi economica e l’incapacità politica di rispondere a essa hanno prodotto una generale crisi di legittimità delle istituzioni. È questa la base sociale su cui nasce il fenomeno dell’antipolitica e del cosiddetto populismo. La grave crisi sociale che vi sta dietro viene gestita dai governi solo con difficoltà. Il rischio – finora basso – di disordini sociali è evidente all’orizzonte di chi governa. In alcuni paesi, questa crisi sociale ha generato movimenti di protesta popolare, in altri ha generato risposte reazionarie (vedi il razzismo dei nuovi tempi). La presenza dei corpi militari nelle scuole ha, con molte probabilità, la funzione di sopperire a questa mancanza di fiducia nelle istituzioni politiche del paese. Si mira dunque a costruire un consenso intorno a corpi militari che rappresentano la “Nazione” e che si presentano pacificamente come rappresentanti della difesa del cittadino di fronte ai nuovi problemi sociali che possono insorgere. C’è ancora un altro aspetto, sempre legato alle modalità con cui questo paese intende affrontare la crisi economica. Da tempo in Italia aumenta la spesa militare, mentre la spesa sociale (scuole, sanità, sostegni economici, lotta alla disoccupazione) diminuisce. Questo genera un aumento in termini assoluti della spesa pubblica (da non confondere con la spesa sociale, di cui è solo una parte). Questo aumento delle spese militari va a scapito della spesa sociale. Come mai non sorge una risposta di protesta collettiva contro questo ingiustificato aumento delle spese militari, così come è stato per gli “stipendi dei parlamentari” o le “pensioni d’oro”? Come mai si è deciso di canalizzare la rabbia popolare su alcuni e quantitativamente insignificanti aspetti degli sprechi, anziché verso le spese militari? Sarà allora forse un caso che occorra creare un consenso attorno ai corpi militari, se la spesa aumenta? Sarà forse un caso che il “volto buono” dei corpi militari nasconda “il lato oscuro” delle missioni militari all’estero? Noi crediamo di no. La battaglia culturale nelle scuole non può permettersi di sottovalutare questo tema, così come quello di Scuole Sicure che è l’amplificazione dei controlli da parte delle forze dell’ordine all’interno delle scuole, dando la possibilità alle suddette di entrare, perquisire e controllare gli studenti, talvolta con l’utilizzo della squadra cinofila. Nonostante il decreto sia stato da poco attuato, sono già parecchie le scuole “succubi” di questo tipo di controlli. Crediamo che queste forme di repressione non rappresentino la vera “sicurezza”, ma pratiche autoritarie che vedono come bersagli i soggetti più deboli e privi della possibilità di sottrarsi, opporsi o difendersi. Studenti di tutta Italia si ritrovano a studiare in strutture fatiscenti, non a norma antisismica e alle quali non sono destinati fondi. La vera sicurezza nelle scuole è un tetto sicuro sotto il quale studiare, in classi non sovraffollate, che stimolino gli studenti allo studio, alla cultura e all’amore verso le proprie scuole. Si inizierà a parlare di scuole sicure senza distorcere il senso di questa espressione, quando si inizieranno a proporre piani nazionali per l’edilizia scolastica, e quando le stesse scuole saranno

capaci di difendersi dalle direttive autoritarie e repressive di questo e di altri governi! Per tali motivi crediamo sia fondamentale opporsi radicalmente, attraverso controinformazione e manifestazioni a tutti gli scenari in cui si verifica l’ingresso di forze armate all’interno delle scuole, non con lo scopo di fomentare odio per i suddetti, ma per combattere il clima di controllo poliziesco che si sta venendo a creare nelle scuole e fare emergere le contraddizioni che stanno alla base di questa operazione.

5 – Condizione giuridica e funzione sociale: il contratto

Una scuola che diventa strumento strategico del capitale e che persegue gli obiettivi sopra detti ha bisogno di un insegnante con certe caratteristiche, sia dal punto di vista dei percorsi formativi che da quello del profilo contrattuale, e di un personale ATA sottopagato e sotto organico su cui si scarica il peso di una organizzazione del lavoro sempre più complessa. In questi anni di crisi, il mondo del lavoro ed i diritti sociali hanno subito un significativo degrado. Nella scuola e nell’università questo processo è stato anticipato da una serie di riforme che dagli anni ’90 hanno visto il continuo taglio di risorse, precarizzazione del personale, introduzione di forme di salario accessorio (FIS e contributi volontari) che hanno anticipato i processi di divisione dei lavoratori. Inoltre un’operazione culturale di sistematico attacco ai lavoratori pubblici ha consentito prima la limitazione del diritto di sciopero (legge 146/90) e dopo la preparazione del terreno alle riforme di questi ultimi anni, in particolare le riforme Brunetta e Madia, la legge Gelmini del 2008 ed infine e la legge 107/15. Dal 2008 la scuola ha subito continui tagli di investimento, sia in termini didattico-strutturali che di personale, palesemente finalizzati ad una progressiva aziendalizzazione e privatizzazione della scuola statale, contemporanea ad un sempre maggiore foraggiamento delle scuole paritarie, laiche e confessionali. L’eliminazione del modulo alla scuola primaria, lo smantellamento delle attività laboratoriali, l’abolizione di tutte le sperimentazioni e il taglio netto di centinaia di migliaia di posti di lavoro per il personale docente e ATA, sono alla base della 107/15 e del percorso di aziendalizzazione della scuola pubblica. Il 9 febbraio scorso, dopo una trattativa lampo in campagna elettorale, in un clima contraddistinto da scarsissima mobilitazione e senza nessun coinvolgimento di lavoratrici e lavoratori da parte dei maggiori sindacati, è stato firmato il rinnovo del CCNL (2016-2018, in sostanza già scaduto!) per il comparto istruzione e ricerca da CGIL-CISL-UIL-SNALS- GILDA. Aumenti ridicoli, arretrati persi per sempre, riduzione degli spazi di contrattazione, assunzione dell’impianto complessivo della 107 sono i punti più noti del Contratto. Sugli istituti più controversi, come ASL, Bonus premiale e gestione del Potenziamento restano importanti spazi di battaglia sindacale e politica dentro le scuole, in cui le RSU possono svolgere ancora un ruolo. Ma senza scioperi e mobilitazioni generali non si fermano certo le controriforme, non si conquista salario, non si difendono i diritti e lo stato sociale, non si arrestano le derive autoritarie dei dirigenti. Per riportare i lavoratori nelle piazze occorre però una corretta informazione, una ricostruzione della coscienza di classe, una riappropriazione della dignità del ruolo. Pensare agli insegnanti ed ai lavoratori della scuola, insieme agli studenti e alle loro famiglie, come soggetti attivi della trasformazione, presuppone un lavoro di lungo corso che parta dal rifiuto della separazione tra condizione del lavoro e funzione sociale da svolgere. Dobbiamo portare avanti una generale rivendicazione di una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, a parità di salario. In particolare l’organico potenziato deve essere abolito, le nuove assunzioni incrementate anche per favorire la riduzione generalizzata dell’orario di tutti i colleghi, aumentate le risorse e gli organici del personale ATA, perchè è inammissibile che queste funzioni vengano delegate al personale docente o esternalizzate (ed anzi tutte le figure esternalizzate, a partire dagli ex lsu ata). Va costruita una vertenza per contrastare la flessibilità dovuta all’utilizzo dei precari e richiesta l’assunzione immediata di questi lavoratori. È importante richiedere interventi urgenti e risorse certe per la messa in sicurezza di tutti i plessi scolastici. Slogan quali “scuole belle” e “scuole sicure” non nascondono la fatiscenza e l’obsolescenza delle strutture, delle quali soltanto un 30% circa in tutt’Italia è adeguata. Questo lavoro sulla condizione materiale e sulle battaglie praticabili deve essere oggetto delle strategie di lotta e dell’idea di intervento sindacale che PAP deve prospettare. Questo piano è propedeutico ma assolutamente non autonomo dal punto successivo. Il soggetto della trasformazione deve iniziare a ragionare nel merito del lavoro che svolge. Il salariato della distribuzione dei saperi e della passivizzazione delle giovani generazioni deve trovare la strada per render vivi quel sapere, quei ragazzi e se medesimo: e vivi sono oggi quelli che non accettano la realtà e lavorano per trasformarla.

6 – Slow school: per apprendere, comprendere e agire saperi comuni

  1. Il postulato pedagogico

Posta la premessa gramsciana, ogni rapporto di “egemonia” è necessariamente un rapporto pedagogico, lo scopo dell’educazione, in sostanza la questione politico-pedagogica chiave, è: Come si può trasformare una soggettività subalterna in una soggettività emancipata e dirigente? L’insegnante deve trasformare il suo rapporto verso lo studente in funzione del mutamento dello studente stesso. Un rapporto a senso unico, in cui l’insegnante agisce sullo studente restando impermeabile alle sue reazioni, tende a cristallizzarsi in una forma determinata, quella dogmatico-autoritaria. L’insegnante deve comprendere il buon senso (parte riflessiva del senso comune) dello studente e trovare il modo di collegare la sua esperienza al sapere da apprendere. L’insegnante deve essere chiaramente consapevole di avere un scopo preciso: l’emancipazione dello studente. A ogni fase della crescita di un giovane, a ogni livello di scolarità (dalla scuola dell’infanzia all’università), corrisponde una modalità di “uscita” dello studente dalla condizione di subalternità e quindi una certa forma di autonomia, cioè una sua determinata capacità di agire in comune i saperi appena conquistati.

  1. Un modello da contrastare: la fast school.

Che tipo di scuola ci è stata proposta negli ultimi trent’anni? Il disastro pedagogico finora perpetrato è la finalizzazione dell’istruzione al mercato, veicolando l’idea più generale che la scuola sia un luogo di predisposizione culturale al mondo-della-competizione. La scuola deve quindi fornire competenze adatte a vivere nel modello socio-economico presentato come l’unico possibile, a vocazione individualistica, dove la cultura è merce, intrattenimento e dove l’apprendimento è un servizio opinabile, a declinazione variabile nell’estetica del consumo. Il “nuovo” modello di scuola aziendalista, per formare un lavoratore adattabile, flessibile e precario per essenza, si è concretizzata in una serie di curvature: la tendenza ad appaltare “all’esterno” pezzi interi di formazione e l’importanza eccessiva data alle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (le TIC sono uno dei mantra della scuola europea, molti soldi sono stati spesi per questo). Ma nonostante l’applicazione/imposizione delle nuove tecnologie e didattiche, ciò che accomuna la “vecchia” scuola e la cosiddetta “buona” scuola è la permanenza della stessa struttura spazio-temporale che organizza l’istruzione: l’unità oraria delle lezioni, la frammentazione dello studio, la divisione tra sapere teorico e pratico, l’apprendimento come competizione, il premio della valutazione. In sintesi la scuola- azienda è una fast school o “scuola leggera” che non fa altro che condurre fino in fondo la preesistente alienazione/espropriazione del tempo di vita nel tempo di studio. Brevemente: l’università è una fabbrica di precari. In Italia il progetto neoliberista di università si è dispiegato pienamente con l’applicazione della riforma del 1999. L’istituzione dei curricola e l’uniforme misurabilità dei crediti hanno reso lo studente un precario in formazione permanente. La riforma ha imposto ritmi di studio fordisti (30/40 ore di lezione a settimana, 15 esami all’anno la media più consueta, la libertà del piano di studi quasi del tutto abolita). Inoltre attraverso l’uso degli stage (in molti casi obbligatorio per ottenere i crediti) le imprese possono utilizzare direttamente e gratuitamente gli studenti. In tal modo gli studenti si abituano alla perdita di controllo del proprio tempo di vita e ad essere disponibili per qualunque lavoro. La scuola secondaria (inferiore e superiore) è stata omologata: in sostanza, dagli anni ’80 in poi, ha via via assunto sempre più la caratteristica, propria dei licei, di scuola propedeutica agli studi superiori o all’avviamento immediato al lavoro. Ha mantenuto inalterata la struttura (didattica dell’istruzione programmata e orari d’insegnamento piuttosto pesanti – dalle 30 ore dei licei alle 40 degli istituti tecnici/professionali) e ha impartito un’istruzione generica che rimanda la scelta di studio e di vita a un’età indefinita, oppure spinge all’abbandono per mancanza di prospettiva futura. La scuola di base (infanzia e primaria) ha una storia complessa: è quella in cui si è più sperimentata una pedagogia emancipatrice, sebbene mai in modo sistematico. Le conquiste sociali degli anni ’60-70, dall’introduzione del tempo pieno, all’istituzione delle scuole statali dell’infanzia, fino ai decreti delegati, vennero in risposta alle richieste di uguaglianza e cambiamento sociale di quegli anni. In una fase successiva, tali conquiste sono andate lentamente perdendosi, costringendo la scuola di base a standardizzarsi ai gradi superiori. Con le riforme, dagli anni ’90 in poi, s’è imposta la finzione dei dipartimenti, la reintroduzione del maestro unico, la distruzione del tempo pieno, la pseudo-didattica delle competenze/valutazione. Per contrastare questa deriva e restituire alla cultura scolastica il suo ruolo civile di

emancipazione individuale e collettiva – che comprende il lavoro, inteso come strumento di trasformazione del mondo e di partecipazione sociale – dobbiamo ri-orientare la nostra prospettiva pedagogica. Bisogna ripartire dalla questione del rapporto scuola-lavoro-società. Si può portare il lavoro dentro la formazione degli studenti, senza che sia educazione alla competizione? Senza che sia addestramento aziendale? Senza che sia manodopera gratuita? Noi crediamo di sì. Si tratta di mettere in crisi il modello capitalistico di produzione, svelandone l’arcano, e di riportare il lavoro nella sua dimensione di creatività e progettualità, padroneggiamento di un processo e riconoscimento del proprio prodotto. Si tratta di pensare la formazione delle conoscenze e delle competenze entro una cornice diversa, intitolata allo sviluppo umano integrale, e dunque alla formazione sia del produttore, sia del cittadino, sia – più in generale – di uomini e donne capaci di pensare autonomamente e di concepire liberamente i propri progetti di vita. Bisogna ripensare l’attuale struttura dello spazio e del tempo scolastico e capovolgerne il senso.

  1. Slow school: un progetto da costruire

La scuola come ambiente di vita. La scuola dell’infanzia ha un vantaggio: il momento dell’educazione è strutturato come ambiente di vita nel quale i soggetti operano in promiscuità. Questa dimensione dovrebbe informare, in qualche modo, anche tutti gli altri ordini di scuola. Perché, in questa prospettiva aperta, gli studenti si potrebbero condurre in una routine di regole condivise, in una fervente attività disciplinare e in produttivi percorsi laboratoriali; si potrebbero mettere nella condizioni di costituirsi come esseri emancipati, ai diversi livelli d’età. L’educazione indiretta. Qual è il dispositivo di regolazione da usare per mediare tra la “spontaneità” dello studente e l’autorità dell’insegnante? La risposta è l’ambiente scolastico. Se attraverso un ambiente predisposto “dall’alto” si determina un apparato di mediazione (orari, arredi, sussidi, regolamenti ecc.) che reprime la spontaneità, seguendo, invece, il principio dell’educazione indiretta (l’educatore stesso deve essere educato) l’ambiente permette di trasformare la spontaneità in consapevolezza. Questo vuol dire che, in una certa misura, tutti i soggetti che agiscono nella situazione educativa devono organizzare l’ambiente. L’educazione laterale. Con l’espressione “insegnamento frontale” si indica il modello del professore che sta letteralmente di fronte agli alunni, i quali a loro volta sono schierati in file di banchi e guardano tutti verso di lui. L’insegnamento è unidirezionale, non è previsto uno scambio attivo, nel quale impara anche l’insegnante. Tra gli alunni stessi non è prevista un’interazione, se non “sottobanco”. Invece l’insegnante non deve stare di fronte agli studenti, ma accanto a loro. Si tratta di predisporre spazi e tempi per favorire incontri, condivisione, progetti, esplorazioni, scoperte e rielaborazioni; per agevolare la produzione di “oggetti” culturali (quali libri, dossier, quaderni, relazioni scritte/orali), per attivare comunicazioni pubbliche (dentro e fuori l’aula e/o la scuola). Anziché di “insegnamento frontale” si dovrebbe parlare di “educazione laterale”, ma sia chiaro che per educazione laterale non intendiamo affatto la riduzione del docente a facilitatore dell’apprendimento, come nei progetti del MIUR, che mirano al depotenziamento del ruolo di punto di riferimento culturale dell’insegnante nei confronti dello studente, bensì un atteggiamento razionale disponibile al confronto, nella consapevolezza del proprio ruolo di adulto. Studiare con lentezza significa rovesciare il meccanismo post-taylorista e neoliberista dell’istruzione, significa riappropriarsi dell’alienato, sia in termini quantitativi (il tempo) che qualitativi (il contenuto negativo del sapere). All’ambiente scolastico chiuso e gerarchico bisogna opporre un ambiente scolastico aperto e democratico. Il modello pedagogico che abbiamo illustrato riprende, in sostanza, gli aspetti comuni ed essenziali di quelle esperienze pedagogiche alternative che hanno caratterizzato le lotte delle avanguardie (di insegnanti e studenti che ci hanno preceduto) e le attualizza. In sintesi: siamo contro la fast school e vogliamo la slow school.

  1. Indicazioni per un programma di transizione verso un altro orizzonte pedagogico

Scuola dell’infanzia: – estensione dell’obbligo a questo grado scolastico – compimento del sistema pubblico con la costruzione di scuole che soddisfino la domanda sociale – mantenimento della promiscuità dell’attività quotidiana – controllo e adeguamento della mensa – espansione della didattica dei campi d’esperienza – rafforzamento della programmazione con l’articolazione di unità didattiche indirette e progetti didattici diretti. Scuola primaria: – costituire momenti periodici di attività verticale – ripresa delle tecniche pedagogiche che portano il lavoro dotato di senso in classe (scrittura collaborativa, calcolo vivente, tipografia, ecc.) –

ripristino del tempo pieno o sua piena introduzione dove non é stato pienamente applicato – eliminazione della didattica per competenze che prescinde dalle conoscenze (tipo modello Invalsi) – ripristino della struttura del modulo (3 maestre). Scuola secondaria inferiore e superiore: – un numero di ore d’insegnamento (disciplinare e/o laboratoriale) per materia non inferiore a tre – una scansione almeno mensile (se non tri o quadrimestrale) dell’orario scolastico (per “alleggerire” il carico di studio distendendo il numero delle materie in un tempo più lungo) – la pratica dello studio e del lavoro comune oltre che individuale – il confronto con la realtà concreta di lavoratori e lavoratrici – l’incontro con testimoni del tempo e della storia – un approccio interculturale e multiculturale alla soluzione dei conflitti – una difesa dei livelli di democrazia e quindi il rafforzamento delle pratiche della rappresentanza, previa una revisione del senso degli organi collegiali (ripristino delle prerogative del Collegio Docenti, maggiore attenzione alle istanze dell’Assemblea degli studenti e riduzione dei poteri del Consiglio di Istituto). Università: – eliminazione dei test d’ingresso e del numero chiuso – eliminazione della frequenza obbligatoria – diminuzione dei ritmi di studio – diminuzione dei corsi di laurea – inserimento di una didattica per laboratori – liberalizzazione del piano di studi – organizzazione con gli studenti della vita didattica.

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